Archive for febbraio 2007

La caduta di Prodi e l’inizio della fine

Che il governo di Romano Prodi fosse nato sotto la grigia nube della provvisorietà è un dato di fatto. Auspicavo tuttavia che nel suo breve mandato potesse affrontare di petto alcune delicate questioni. Liquidare i problemi più urgenti per poi tirare a campare, nel semplice, ma razionale giudizio che ogni ulteriore intervento sarebbe stato un surplus di tutto guadagno. Così non è stato. Il Governo ha disatteso le promesse, non ha affrontato i temi più veri e sentiti della sue battaglie (conflitto d’interesse in primis) pur trovandosi di fronte alla più ghiotta delle occasioni. Ha preferito la strada dell’impopolarità, battendo terreni dove sapeva che sarebbe stato difficile camminare compatti. Non ha combattuto le guerre comuni, ma ha intrapreso battaglie di quartiere, in luoghi diversi e con avversari diversi. Si è occupato di indulto, di pacs, di una finanziaria dura. Troppo difficile, anche per chi ha (e Prodi non le ha) legioni forti e compatte. Per usare un gergo meno forbito, ma più chiaro, potrei dire che se l’è cercata. Questa caduta di Prodi rammarica proprio perché con qualche accortezza in più poteva essere evitata.
Ora le ipotesi di futuribili si riassumono sulle dita di una mano:
– L’eventualità più accreditata è quella del “Prodi bis”. Il professore che ottiene un reincarico, fa un piccolo rimpasto e naviga a vista, in attesa del primo scoglio. Sarebbe un governo fotocopia, che non può spingersi nei mari delle riforme importanti, che non può pestare i piedi al Vaticano né scegliere linee nette di politica estera. Sarebbe una “non soluzione”, perché il problema reale verrebbe solamente rimandato di qualche mese e l’agonia degli Italiani proseguirebbe senza ragione.
– È più augurale, seppur poco probabile, la strada del cambio di maggioranza. Se si riuscisse a formare un governo confinando la sinistra radicale, potrebbero nascere i presupposti per una legislatura più longeva e creativa. Ma se non si vuole attingere dall’Udc (e nemmeno l’Udc vuole fungere da stampella), la strada diventa un vicolo chiuso.
– L’avvento di un gabinetto di tecnici o quello di un governo di minoranza stile prima repubblica, avrebbero un identico effetto. Il primo opererebbe con le mani legate, col secondo trionferebbe il cerchiobottismo fine a sé stesso. Un guaio statico.
– Il peggiore degli epiloghi sarebbero le lezioni anticipate: Berlusconi tornerebbe al timone e con lui le barbarie ad personam e le nefandezze della sua Giustizia. Purtroppo, infatti, il miraggio di una destra affrancata dal Cavaliere appartiene ancora all’ambito dell’irrealtà.
Dovunque la si guardi e comunque la si prospetti, tutte le ipotesi risolutive future sono accomunate dal paradossale denominatore del peggioramento. Non si tratta di catastrofismo, ma la debacle prodiana rappresenta solo l’inizio di una lunga fine.

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Quaresima, tra finte rinunce e sfide personali

Ho sempre letto le rinunce della Quaresima non tanto come sudati dettami religiosi da seguire, quanto piuttosto come una patrimonio di tradizioni da preservare. Costumi culturali che raccontano la nostra storia, con lo stesso valore della ricetta dei capunsèi o dei proverbi del nonno.
Ricordo, da piccolo, una disquisizione filosofica con mia madre. Strenua sostenitrice del “mangiar di magro”, fu messa in crisi dal giovane figlio che le poneva l’insidioso quesito “se fosse meglio un’abbuffata di aragosta che un tocco di pane raffermo insaporito da una fetta di salame?”.
Il significato religioso (nell’anno Domini 2007) sta nel valore della rinuncia in sé, non nella prescrizione del digiuno e della rinuncia alle carni.
È per queste premesse che ho sempre aderito ai precetti con spirito libero. I bigoli con le sardelle o il cuspetù sono sempre stati per me un ritorno alla tradizione, non una flagellazione corporale. Nessun sacrificio insomma.
L’occasione della Quaresima può essere però la sfida alla forza di spirito di ognuno. Mi sono auto-ordinato (mai mi accadde nella storia) una rinuncia forzata e sofferta col solo ed unico scopo di verificare la mia forza di volontà. Semplicemente come un vecchio stoico, mi sono imposto dei severi limiti da non oltrepassare. Nessun voto, nessuna sacra ispirazione. Solo il gusto di sfidare me stesso al fine ultimo di premiare il vincitore.

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Se il Dio di Ruini diventa di destra

Mi è stato inoltrato un ottimo articolo confezionato da Ezio Mauro, direttore di Repubblica. Lo trovo molto interessante e altrettanto condivisibile. Lo ripropongo.

C’è una domanda cruciale per la politica italiana che nessuno fa a voce alta, assordati come siamo in questo inizio di secolo dal suono delle campane dei vescovi. Eppure è una domanda che, a seconda delle risposte, può cambiare il paesaggio politico del nostro Paese e può ridefinire alleanze e schieramenti. La questione è molto semplice e si può sintetizzare così: è ancora consentito, nell’Italia del 2007, credere in Dio e votare a sinistra?

Nel silenzio della coscienza individuale è senz’altro possibile e anzi è comune, risponderebbero molti dei nostri lettori, che hanno in mano un giornale laico, sono in parte cattolici e votano abitualmente per lo schieramento di sinistra, magari talvolta turandosi il naso. E infatti, non è la libera testimonianza individuale che è in discussione: e ci mancherebbe. Ciò che invece mi sembra sotto attacco è l’organizzazione politica del pensiero cattolico di sinistra, la sua “forma” culturale, l’esperienza storica che ha avuto in questo Paese e infine e soprattutto la traduzione concreta di tutto ciò nella nostra vita di tutti i giorni e nel possibile futuro. Cioè l’alleanza tra i cattolici progressisti e gli ex comunisti che è al centro della storia dell’Ulivo, che oggi forma il baricentro riformista del governo Prodi e che domani dovrebbe essere la ragione sociale del nuovo partito democratico, risolvendo l’identità incerta della sinistra italiana.

Se non fosse così, non si capirebbe tutto ciò che si muove in queste ore sotto il mantello dei vescovi. È come se per la gerarchia fosse iniziata la terza fase, nei rapporti con la politica italiana. Prima, nel Paese “naturalmente cristiano”, la Chiesa poteva presumere di essere il tutto, affidando ad un unico soggetto politico – la Democrazia Cristiana – la traduzione nel codice statuale dei suoi precetti e la tutela dei suoi timori, sempre nell’ombra dei corridoi vaticani, perché l’impronta del Papato oscurava comunque in una surroga di potenza l’identità culturale dell’episcopato nazionale.

Poi, a cavallo del giubileo e all’apogeo di un papato universale come quello di Wojtyla, ecco la coscienza per la Chiesa di essere finita in minoranza in un Paese cattolico per battesimo ma scristianizzato nei fatti, improvvisamente “terra di missione” per una riconquista che per compiersi ha bisogno di un disegno forte e autonomo dei vescovi, perché dopo secoli anche in Italia da “tutto” la Chiesa deve diventare “parte”.

L’uomo che gestisce il passaggio in minoranza della Chiesa – la seconda fase – e capisce le potenzialità politiche di questa nuova condizione, è il cardinal Ruini, presidente della Cei.

Diventando parte, la Chiesa diventa reattiva, combattiva, entra in concorrenza con le altre grandi agenzie valoriali e le centrali culturali, si “lobbizza” agendo da gruppo di pressione sui centri di decisione della politica e soprattutto della legislazione. Ruini intuisce che la sfida della modernità, in questa fase, è soprattutto culturale, e capisce di trovarsi di fronte – dopo Tangentopoli e la caduta del Muro – partiti senza tradizione, senza bandiere, senza identità storica. Il pensiero debole della politica italiana può dunque essere attraversato facilmente dal pensiero forte del Papa guerriero, e nella breccia possono utilmente infilarsi i vescovi per una politica di scambio che abbia al centro i cinque temi della vita, della solidarietà, della gioventù e soprattutto della famiglia e della scuola.

La terza fase comincia quando Ruini avverte che alla Chiesa è consentito, nei fatti, ciò che nella Repubblica non è permesso alle altre “parti”. Ogni componente della società, ogni identità culturale, nella sua autonomia e nella sua libertà deve riconoscere un insieme in cui le parti si ricompongono: lo Stato. Ma è come se la Chiesa, mentre ammette di essere diventata minoranza, non accettasse di vedere in minoranza i suoi valori, faticasse a stare dentro la regola democratica della maggioranza, dubitasse del principio per cui in democrazia le verità sono tutte parziali, perché lo Stato non contempla l’assoluto. La Chiesa oggi in Italia è più debole di ieri nei numeri? Non importa, perché i numeri non contano visto che per Ruini il cristianesimo è avvertito nel nostro Paese come “senso comune”, una sorta di substrato antropologico, una specie di natura italiana: alla quale si può trasgredire solo con leggi che diventano automaticamente contro natura, dunque sono contestabili alla radice.

È un discorso che ha in sé l’obiettivo grandioso della terza e ultima fase del lungo regno ruiniano sull’episcopato italiano: la riconquista dell’egemonia, non più attraverso il partito dei cristiani ma direttamente da parte della Chiesa, che con la spada di questa egemonia rifonderà la politica, separando infine il grano dal loglio e costituendo un nuovo protettorato dei valori nell’esercizio di un potere non più temporale, ma culturale. Un progetto che può compiersi solo davanti ad un sistema politico gregario, senza autonomia, incapace di testimoniare un sentimento civile della Repubblica, svuotato di identità al punto da vedere nella Chiesa l’ultima agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie. Fonte ancora di mobilitazione, forse di legittimazione, almeno di benedizione, in un Paese in cui tutti i leader politici – o quasi – si sono convertiti se non altro mediaticamente, o comunque hanno dichiarato di essere pronti a farlo, e altrimenti sono in lista di attesa: o, come si dice, in ricerca.

Siamo davanti ad una sorta di neo-gentilonismo, con la religione che diventa materia di scambio, nella presunzione che sia vera la leggenda del voto cattolico di massa orientato dalla stanza del vescovo. Con l’intercapedine culturale dei partiti debole e fragile, la Chiesa scopre la tentazione di raggiungere direttamente il legislatore, si accorge che la precettistica può influenzare molto da vicino la legge, dimentica la distinzione suprema tra la legge del creatore e la legge delle creature. Se il disegno è egemonico, tutto è potenza. E se un testo legislativo diventa simbolico, qui si deve dare battaglia fino in fondo perché la bandiera trascende la norma e il valore ideologico supera il valore d’uso. Ecco la prima risposta alla domanda intelligente di Giuliano Ferrara ai vescovi: dove volete andare con questa battaglia intransigente, non più negoziale, sui Pacs, visto che si prepara “un risultato che collocherebbe l’Italia in un ambito di cautelosità e di disciplina morbida delle pretese nuove forme di famiglia”? Semplicemente, vogliono andare fino in fondo: non della battaglia sui Pacs, ma della battaglia per l’egemonia culturale, che è appena incominciata.

Come accade in ogni battaglia, anche in questo caso il cardinal Ruini lascerà tra poco in eredità al suo successore non solo le truppe, le mappe e le strategie, ma anche le alleanze. Che sono tutte a destra, perché qui si compie, oggi, la lunga cavalcata di quello “strano cristiano” che avevamo visto muoversi sulla scena italiana per la prima volta sei anni fa. Incapace da più di un decennio di far nascere un nuovo sistema culturale che dia un codice moderno ed europeo a moderati e conservatori, la destra si accontenta della prassi di potere e di consenso berlusconiana e prende a prestito le idee forti, che non ha, nel deposito di tradizione della Chiesa italiana. La destra cerca un pensiero, la Chiesa cerca la forza e nell’incontro inedito il verbo si fa carne: e poco importa che sia carne pagana, con la mistica idolatra del berlusconismo che ha introdotto una nuova religione in politica, rendendo Dio strumento dell’unzione perenne al demiurgo, mentre nasce un nuovo “cristianismo”, con la fede svalutata in ideologia.

Se questo disegno si compie, la Chiesa corre il rischio mondano di diventare parte, se non addirittura un soggetto politico diretto, e si amputa a sinistra la cultura politica cattolica, per la prima volta nella storia della Repubblica. Escludendo quei cattolici democratici che hanno preso parte attiva alla nascita della costituzione e delle istituzioni repubblicane, e che soprattutto hanno saputo per decenni coniugare la fede con la laicità dello Stato. Forse per il cardinal vicario vale ancora la condanna di Augusto Del Noce contro i “progressisti cattolici”: “Trasformano talmente il cristianesimo per non ledere l’avversario, che bisogna dubitare se effettivamente credano”. Certo, per Sua Eminenza vale la profezia di Rocco Buttiglione: “Il cattolicesimo che si era lasciato ridurre nell’inglobante progressista oggi non ha più nulla da dire, torna attuale il pensiero cattolico che aveva rifiutato il progressismo”.

La partita ruiniana sembra puntare proprio qui, a far saltare l’alleanza tra i cattolici democratici e la sinistra ex comunista, in un disegno riformista che può diventare un partito. Ecco perché ieri sui Pacs – dove i vescovi intervengono ormai sugli articoli di un disegno di legge, non sui valori – è riecheggiato addirittura il solenne “non possumus” di Pio IX, con un monito preciso contro la sinistra e in particolare contro i cattolici democratici: quanto sta accadendo, ha scritto infatti con chiarezza il giornale dei vescovi con un linguaggio mai usato nei giorni più neri della Repubblica, è “uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana”.
Il dado, a questo punto, sembra tratto. È vero che la presenza cristiana nel Paese, come dice Pietro Scoppola, non è riducibile a questo schema di comodo. Ma la Chiesa, con lo spartiacque benedetto di Ruini rischia di aprire per la prima volta un fronte religioso nella battaglia politica italiana, qualcosa che non abbiamo ancora conosciuto, una faglia inedita. In un terreno fragilissimo, dove troppi politici sono pronti a cambiare opinione a ogni rintocco di campana, sensibili nei confronti dei vescovi molto più al comando che ai comandamenti. Ecco perché bisogna chiedersi se è ancora consentito credere in Dio e votare a sinistra.

Anche se bisognerebbe aggiungere un’ultima domanda: in quale Dio? Nella prima fase dell’era Ruini, era un Dio post-democristiano, comodo perché relativo, appagato dalla sua onnipotenza e affaticato dal suo declino. Nella seconda fase, quella della minoranza, è diventato un Dio italiano, in una sorta di via nazionale al cattolicesimo. Oggi, rischiano di farci incontrare un Dio di destra, e già solo dirlo sembra una bestemmia.

(Ezio Mauro – da La Repubblica del 7 febbraio 2007)

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Boicottiamo San Valentino

Faccio parte di quella schiera di persone con la puzza sotto il naso, che snobbano la festa di San Valentino con aria di smisurata superiorità e penetrante ribrezzo. È più forte di me, non ce la faccio. Non riesco a concepire le corse al regalo per l’amata o le sanguinarie prenotazioni nei ristoranti opportunisti. Decidere di festeggiare un sentimento specifico e peculiare per definizione, in un giorno comune a tutti, e per di più imposto dall’esterno, è un’incoerenza.
Ciascuno si scelga un modo proprio ed unico per festeggiare. Altrimenti che senso ha?

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"Dico", quel che penso

Che le coppie di fatto siano un fenomeno reale, esempio tangibile del mutamento progressivo della società, è incontrovertibile. Mutamenti sociali, nelle abitudini, nelle aggregazioni, che devono essere viste come domande che il cittadino pone a tutti coloro che regolano la vita di una comunità. È per questo che uno stato laico non può non considerare simili questioni e attivarsi per fornire delle risposte. Uno stato laico deve innanzitutto riconoscere queste tendenze crescenti e deve esprimere i suoi giudizi in base alla legislazione vigente, non ai precetti morali che vivono fuori dalla sua laicità. Altrimenti è un’atra cosa. In secondo luogo, riconosciute e giudicate queste tendenze, deve saperle fronteggiare.
Al Governo Prodi va dunque il merito di aver preso in considerazione una necessità diffusa, di essersi mosso per dare ai cittadini delle risposte di fronte ad un crescente bisogno collettivo.
Confuto tuttavia il merito di questa risposta, sempre in virtù della mia vecchia convinzione che Prodi e i suoi prodi siano obbligati a dare un colpo al cerchio ed uno alla botte: si trovino cioè costretti ad accontentare pochi, nel tentativo di non scontentare nessuno.
Non si capisce innanzitutto come si possano equiparare le coppie di fidanzati a quelle di parenti (fratelli e affini). Due fratelli che convivono hanno forse il bisogno di vedere sancito il diritto reciproco di visita all’ospedale? Non esistono già norme che tutelano la parentela in materia di successione? Occorre stabilire con nuove leggi che due fratelli conviventi hanno il diritto di subentrare vicendevolmente nei contratti d’affitto?
Tutti questi diritti, a cui si sommano svariati doveri (es. mantenimento) sono attribuiti anche alle coppie di fatto, generalmente intese (fidanzati conviventi). Ma allora cosa distingue tutto questo da un tradizionale matrimonio civile? Non stiamo parlando alla fin fine degli stessi diritti e doveri sanciti in un atto pubblico, stipulato di fronte al sindaco?
Il dubbio è che tutto il palco serva a sostenere l’introduzione sulla scena dell’istituzionalizzazione delle coppie omosessuali. Ma allora non sarebbe stato più razionale e corretto legiferare specificatamente per queste realtà? Certamente sì. Tuttavia lo scalpore e i voti contrari sarebbero stati di ben più ampie dimensioni.
Un colpo al cerchio, uno alla botte…

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Ostracismo di sinistra

Se il ministro Melandri può intercedere con successo sulla redazione di Porta a Porta al fine di impedire la presenza nella trasmissione di un ospite scomodo, è chiaro che viene meno il dogma assoluto secondo il quale la pratica dell’ostracismo mediatico appartiene solo alla destra. L’azione di pilotare l’informazione o, peggio, di imbavagliare le opinioni contrarie non è catalogabile staticamente nella categoria dello spazio (politico). L’ostracismo di Zamparini, reo di aver tacciato di incompetenza il Ministro dello Sport, dimostra che l’imposizione del silenzio ed il soffocamento del dissenso seguono prima di tutto il potere e chi lo detiene.
Vespa giustifica il grave veto con il “diritto di chiunque di scegliere di non essere offeso”. Al di là del fatto che si possa confutare facilmente questa posizione di difesa preventiva, non è più importante tutelare il diritto di tutti di ascoltare tesi e antitesi in piena libertà?

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Clamoroso al Cibali…

Mi ero riproposto di non scrivere nulla sui fatti di Catania. Non perché l’argomento non suscitasse il mio interesse, o perché non fosse di per sé meritevole d’attenzione, ma per evitare di aggiungere retorica alla retorica. Di fronte a queste situazioni, si ascoltano sempre le stesse parole, gli stessi appelli, le stesse considerazioni. Accade sempre che “i soliti concetti” finiscano per annullarsi a vicenda: un’opinione o un pensiero, seppur forti, nel momento in cui vengono ripetuti ad oltranza e dunque inflazionati, perdono il loro peso e la loro portata. Il più delle volte repetita stufant. Frasi come “il calcio è malato”, “non si può morire per una partita” o “manca la cultura della sconfitta”, benché condivisibili, suonano ormai come apostrofi atone, profondi vuoti da rendere al mittente. Nessun effetto.
Mi ero proposto di non scrivere, dicevo. Poi oggi ho letto le parole di Matarrese e non ho resistito. “Che il calcio non debba fermarsi e che un poliziotto morto faccia parte del sistema” sono dichiarazioni prive d’ogni rispetto, irriguardose prima ancora che inopportune. Lo sdegno corale di fronte a queste idiozie dimostra la bassezza del personaggio. Immaginiamo che tra manager e dirigenti del suo livello questo pensiero risulti diffuso e condiviso. Di fronte ai grassi interessi in gioco, l’uomo che regge i fili di tutte le marionette non si sconvolge certo per una morte “qualunque”. È vergognoso pensarci, ma non fatico a credere che tra le dichiarazioni di disappunto e cordoglio pronunciate da tutti i vertici politico-sportivi ci sia molta ipocrisia. Da un presidente di Lega non possiamo certo attenderci grande moralità o propensione all’etica, ma speravo che anche il più sciagurato dei dirigenti sportivi potesse avere almeno il buonsenso del silenzio.

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