Archive for agosto 2006

Il doppio effetto di una Lega nuova

Al raduno delle camicie verdi in Val Brembana, Umberto Bossi ha usato un linguaggio nuovo, quindi sorprendente, per arringare la piccola folla di fedelissimi giunta per dissetarsi alla fonte del Senatùr. Pacatezza in tema di federalismo: non più lotta strenua alle istituzioni centrali, condita da invettive più o meno ortodosse, ma “metodo democratico”. Autonomia da raggiungere solo tramite il sistema, non sbaragliandolo con qualsiasi mezzo. Parole sorprendenti anche in materia di indulto, considerato la via di salvezza, da offrire ai carcerati, nella speranza che non delinquano più.
Questa svolta buonista del vertice leghista rischia di partorire due effetti.
Un primo effetto positivo è la riduzione dell’estremismo e della radicalizzazione del partito e del conflitto politico, di cui la Lega stessa è parte attiva. L’evidente tentativo di convergenza al centro per accaparrarsi elettorato moderato (i partiti che stanno agli estremi non hanno svantaggi nel convergere: gli elettori più oltranzisti non potranno fuggire oltre, mentre giungeranno nuovi moderati) comporta per definizione un riequilibrio delle posizioni: gli eccessi si attenueranno ed il dibattito convergerà sui temi tradizionali e più condivisi. Sarà dunque più semplice discutere le riforme da fare e le scelte da prendere, dal momento che ci sarà meno spazio per gli scontri tra posizioni antitetiche ed opposte.
L’effetto contrario, e negativo, è che paradossalmente la scelta del “metodo democratico” da parte della Lega renderà meno democratico il Parlamento. La convergenza del partito di Bossi segnerà uno spostamento dell’asse politico-partitico interno alle Camere. In sostanza verranno rappresentate in maniera minore le posizioni degli italiani più estremisti, che non potranno scegliere altri partiti più radicali, perché inesistenti. E un Parlamento che fatica a rappresentare tutte le posizioni, che soffre di un deficit di rappresentanza, è un Parlamento debole.
Questo potrebbe essere il doppio effetto portato dal vento della nuova Lega. Ma per ora è tutta mia fantasia.

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Perché comandare in Libano

Se l’Italia dovesse guidare il contingente militare internazionale in Libano, sarebbe indubbiamente il raggiungimento di un risultato prestigioso. Sarebbe un ragguardevole successo della politica estera. Si affermerebbe l’autorevolezza internazionale del nostro paese e “contare” internazionalmente implica molti vantaggi. L’autorevolezza nei rapporti internazionali significa peso nelle decisioni centrali. Poter decidere e poter influenzare le scelte dell’Unione Europea, ad esempio, è fondamentale. Le politiche economiche ed agricole dell’Europa hanno una ripercussione sostanziale sulla nazione-Italia. Ed anche l’idea di un paese forte e stabile può promettere evidenti favori (si pensi agli investimenti esteri).
Acquisire appeal nella vetrina internazionale è dunque un mezzo per ottenere vantaggi. Per questo la classe politica italiana si è schierata quasi unanimemente a favore dell’assegnazione del comando al nostro paese. I pochi pareri contrari ed isolati dovrebbero far meditare. All’estrema sinistra ci si arrocca su veti assurdi, temendo (a torto) di tradire ideali superiori. All’estrema destra si teme che il “prestigio dell’Italia” venga confuso col “prestigio di Prodi” e per questo si rema contro. Ma la scelta è giusta.
È chiaro che questo compito deve essere svolto solo in presenza delle più tutelanti garanzie.
– Il mandato deve essere sotto l’egida Onu. Questa condizione, peraltro già operativa, permette di distinguere una missione di guerra da una missione di pace. Infatti solo il mandato Onu può garantire la “non arbitrarietà” di un intervento armato. Giungere in Iraq, senza un mandato della comunità internazionale, altro non è che un atto arbitrario emanato da uno stato contro un altro. Un atto di guerra insomma.
– Devono esserci regole chiare e definite in maniera condivisa. Deve essere l’Onu stessa che detta le regole. Sono le cosiddette “regole d’ingaggio”. L’Italia, in sostanza, deve sapere quali sono i limiti e le facoltà entro i quali muoversi.
– Oltre alle regole, è necessario acclarare gli obiettivi. Siano essi, come in questo caso, di peace building o di peace keeping.
– L’impegno e le risorse (fisiche ed economiche) forniti dalle nazioni che partecipano alla missione devono essere dichiarate fin dall’inizio. Al fine, più che ovvio, di non ritrovarsi a capo di un’armata brancaleone, incapace di onorare gli impegni e dequalificante per chi opera il comando.
Se queste garanzie saranno rispettate, e se ogni circostanza onorerà i crismi più sacri, l’Italia avrà l’occasione di interpretare un importante ruolo di protagonista nel nuovo (speriamo) film che sta per iniziare in Medioriente. Al contrario, col venir meno di una qualsivoglia variabile, co-parteciperemmo alla solita proiezione di sempre, senza infamia e senza lode. E senza un futuro accettabile per nessuno.

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I colori della polemica

L’esordio incolore della nazionale di Donadoni è stato sapientemente organizzato nella città rossa di Livorno, culla e levatrice del tecnico bergamasco, il giorno appena dopo ferragosto. Chi, tra gli organizzatori, ha lamentato una scarsa affluenza di pubblico poteva anche ingegnarsi prima e meglio. Non era poi così difficile. Sul petto degli eredi degli eroi di Berlino mancava la quarta stella… “Un mese e mezzo non è bastato ai fornitori per aggiornare la maglia” – è stato il sorprendente commento dei responsabili.
La curva amaranto, tra un “bella ciao” e un “bandiera rossa”, si è rifiutata di supportare gli Azzurri, rendendo plateale la protesta contro la Federazione e i suoi vertici, contro i processi sommari e le sentenze “a tarallucci e vino”, sintomo ed effetto di un cancro sociale che ha colpito mortalmente anche lo sport più bello. Associarsi al malcontento è doveroso per chiunque si ritenga amante dello sport. Ed io lo faccio a buon grado. Non posso accettare tuttavia che si fischi l’inno nazionale e che lo si faccia nel day after di una vittoria mondiale. Ai livornesi, che troppo spesso confondono la curva degli stadi con gli slarghi delle piazze, voglio dire che potevano starsene a casa. Non si era mai vista una nazionale campione del mondo fischiata dal pubblico di casa. Italiani, popolo di avanguardisti.

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Via Solferino e i sacri vasi

Da qualche anno l’amministrazione in carica ha rivisto l’organizzazione urbana, perfezionando il piano del traffico ed intervenendo sull’arredo urbano. La storica contrada Sassello è stata dunque arricchita di fioriere di ghisa, posate in coppia (un vaso da una parte, uno d’altra) per i due terzi della sua lunghezza. La scelta, se non discutibile, è risultata perlomeno alquanto opinabile. Personalmente non l’ho gradita, ma l’ho accettata di buon grado, ammettendo che potesse avere una sua logica. Il rallentamento del traffico, la salvaguardia dei pedoni, ed infine l’abbellimento estetico della via, sono “ragioni di stato” che possono giustificare l’interventismo in materia da parte della giunta.
Il punto è che se una decisione scaturisce da dei presupposti, e con essi si giustifica, allora occorre ammettere che se i presupposti vengono meno, anche la decisione perde la sua valenza e deve mutare.
I vasi, posti quasi sempre a ridosso dei muri, costringono i pedoni a sconfinare nella carreggiata anziché procedere al fianco delle case. La sicurezza di chi cammina non è dunque granché salvaguardata.
Progressivamente ho assistito alla transumanza coatta e silente di buona parte delle fioriere. Deportate per svolgere la stessa funzione in altre vie, o per abbellire le piazze in occasione di qualche evento mondano, hanno spopolato via Solferino, sconfessando il principio della miglioria estetica.
Oggi la contrada, che scende sinuosa tra le case del vecchio borgo, conta poco più di dieci piante, poste qua e là in maniera casuale e disordinata. Il tutto, lungi da pianificazioni o studi di sorta, sembra lasciato in balia di se stesso e dell’implacabile oblio del destino. Desolazione e pena, altro che abbellimento!

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I due padri del gettito fiscale

Rimbomba l’eco della notizia secondo cui nel primo semestre del 2006 le entrate fiscali sono aumentate di oltre il 12% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Impazza al contempo la corsa per l’attribuzione di questo record straordinario (straordinario perché extra-ordinario, ovvero oltre, lontano, dalle circostanze usuali). A sinistra e a destra ci si preoccupa di riconoscere l’inaspettato merito. In una gara alla paternità, la preoccupazione più incipiente è quella di accaparrarsi questo figlio imprevisto, ma incredibilmente bello. La banda di Berlusconi è certa che si tratti del frutto partorito dalla semina economica del governo uscente; Prodi, dal canto suo, sostiene che l’iniezione di fiducia targata ulivo abbia spinto gli italiani a pagare le tasse: “se si è certi che non ci saranno condoni, si è più propensi a non evadere”.
La battaglia per il conseguimento del merito, e per la cavalcata della popolarità, offusca le ragioni reali ed esplicative dell’incremento. Nessun economista o sociologo ci ha seriamente spiegato i motivi di questo dato sorprendente. Resteremo a discutere per giorni su chi ha “ottenuto più entrate”; eviteremo di chiederci come possa un governo, in carica da ottanta giorni, influire sulle entrate del semestre precedente; ed eviteremo anche di domandarci come sia possibile che una coalizione in carica per cinque lunghi anni ottenga maggiori entrate nel periodo della sua morte fisiologica. Discuteremo su quello che la classe dirigente desidera che discutiamo, abboccando ancora una volta all’amo.

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Gimondi e il cannibale

Ieri casualmente ho riascoltato la canzone “Gimondi e il Cannibale” di Enrico Ruggeri. Racconta dell’eterna lotta tra il ciclista italiano e d il rivale belga Eddie Merckx, soprannominato il cannibale. Mi pare che il testo nasconda una sottile metafora: ciò che lega Gimondi al Cannibale, e ciò che li divide, può essere trasposto in un qualsiasi rapporto d’amore tra due persone, siano esse follemente innamorate o attanagliate da grosse difficoltà. Oppure nel testo si può intravedere la descrizione di una forte amicizia e delle sue fatiche annesse e connesse. Non sono affatto sicuro che Ruggeri volesse dare alla canzone anche questa ulteriore valenza metaforica, ma ciò è poco rilevante. Il significato che ciascuno di noi attribuisce alle canzoni o alle poesie è di gran lunga più importante rispetto a quello che l’autore aveva pensato in origine. La cosa sconvolgente è che ho ascoltato questo pezzo almeno un centinaio di volte e mai prima di ieri gli avevo attribuito un significato recondito e superiore.
Questo il testo.

La gola che chiede da bere, c’è un’altra salita da fare
per me, che sono fuggito subito.
Rapporti che devo cambiare, lo stomaco dentro al giornale
per me, che devo restare lucido.
E quanta strada che verrà, ma non mi avrai;
io non mi staccherò. Guarda la tua ruota e io ci sarò.

Cento e più chilometri alle spalle e cento da fare.
Di sicuro non ci sarà più qualcuno dei miei.
Tutta quella gente che ti grida “Non ti fermare”.
E tu che mi vuoi lasciare. Non ti voltare; sai che ci sarò.

Scivolano case tra persone fuori a guardare.
Ci sarà riparo al vento lungo questo pavè?
Ci sarà la polvere che nel respiro mi sale.
Ma non mi potrò voltare. Non mi chiamare; sai che ci sarò.

Ancora più solo di prima, c’è già il Cannibale in cima
e io che devo volare a prenderlo.
Sudore di gente dispersa, di maglia, di lingua diversa;
ma io, il cuore io voglio spenderlo.
E quanto tempo passerà in mezzo a noi, ancora non lo so.
Dietro alla tua ruota io ci sarò.

Cento e più chilometri alle spalle e cento da fare.
Di sicuro non ci sarà più qualcuno con noi.
Devi dare tutto prima che ti faccia passare.
Io non mi lascio andare.
Non ti voltare; sai che ci sarò.

Scivolano vite e due destini persi nel sole.
L’orologio prende il tempo e il tempo batte per noi.
Non c’è più chi perde o vince quando il tempo non vuole.
Quando la strada sale non ti voltare; sai che ci sarò.

Cento e più chilometri alle spalle e cento da fare.
L’orologio prende il tempo e il tempo batte per noi.
Non c’è più chi perde o vince quando il tempo non vuole.
Quando la strada sale, non ti voltare; sai che ci sarò

(E. Ruggeri – Gimondi e il Cannibale)

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Abuso di fiducia

Da metà aprile ad oggi, il centrosinistra è ricorso al voto di fiducia in Parlamento per ben sette volte: un record. Per chi non mastica di “prassi istituzionale”, chiarisco che il voto di fiducia altro non è che un espediente, più che lecito intendiamoci, per sveltire l’iter di una norma da approvare. Sostanzialmente, anziché votare sui singoli emendamenti, il Parlamento viene interrogato con una sorta di aut-aut. Il Governo cioè, lo pone in una condizione di scelta: o votare la fiducia all’esecutivo (il Parlamento si fida ciecamente del programma della maggioranza, lasciando perdere ogni dibattito e votazione sugli emendamenti e sulla legge stessa) o sfiduciare il Consiglio dei Ministri (in questo caso il Governo cade e le camere probabilmente si sciolgono).
L’escamotage descritto snatura in modo essenziale il ruolo del Parlamento, privato di quella funzione di discussione e confronto, vitale per la sopravvivenza democratica di uno stato moderno. Se il Parlamento non discute e non si confronta, non vota e non decide, lo Stato si indebolisce finendo per subordinarsi silenziosamente alle decisioni del Governo.
Ha ben poco da giustificare Romano Prodi. Il ricorso alla fiducia finalizzato al superamento dell’ostruzionismo del centrodestra (ovvero, l’unico modo per superare l’infinità di emendamenti) è di per sé una contraddizione di termini. L’opposizione deve fare emendamenti ed il Parlamento deve discuterli. Aggirare la discussione (quando diviene ostacolo) significa evitare che le istituzioni svolgano le funzioni per cui sono state create. A cosa servono un Parlamento che non dibatte e un’opposizione che non propone correzioni o aggiustamenti? E la scusante del “anche i governi prima ne hanno abusato” appare di cattivo gusto e di basso stile: legittimare i propri errori con gli errori compiuti da altri non risolve in modo esaustivo la questione.
Rammarica che questa ondata autoritaria venga da un Centrosinistra che si era proclamato paladino della democrazia e strenuo difensore della pluralità di posizioni e opinioni. È chiaro che il potere straripa da chi ce l’ha.

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