Archive for category Politica

“Sì”, quel sapore di vendetta

Il popolo cornuto era, e cornuto resta:

la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo

e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé,

del colore che gli piace, alle proprie corna.

(L. Sciascia, Il giorno della civetta)

Generalmente con il termine “populismo” s’intende l’atteggiamento di chi mira ad ingraziarsi le classi più povere, usando la demagogia per accattivarsi il favore degli elettori. Il populismo ha come caratteristica imprescindibile la contrapposizione popolo/élite. Su questa antinomia fonda tutta la propria essenza e su questo conflitto basa ogni sua argomentazione: noi popolo (buono), contro loro casta (cattivi).

Uno degli slogan più populisti di sempre è “meno poltrone”. La riforma costituzionale, che a giorni verrà avallata dal referendum, risponde esattamente a questo bisogno intestinale: meno poltrone, meno cattivi. Si tratta ovviamente di una semplificazione assurda, che gioca sull’ambiguità e sul torbido per raggiungere il mero scopo del consenso.

Tra le sommarie motivazioni che spingono a votare “Sì”, la più forte è rappresentata dal fantomatico risparmio di risorse a fronte del taglio di parlamentari inetti. Secondo le stime più generose il risparmio, che va calcolato al netto e non al lordo delle imposte e dei contributi, sarebbe intorno ai 57 milioni di euro annui (stima di Cottarelli). Se la vera motivazione fosse questa, basterebbe ridurre lo stipendio di tutti i parlamentari, senza necessariamente cambiare la Costituzione. In verità, per dirla tutta, se parliamo di 57 milioni parliamo di bruscolini. Dalla sua nascita Alitalia è costata ai contribuenti più di 12 miliardi di euro (fonte Il Sole 24 ore). Il Codacons, calcolando il taglio dei parlamentari al lordo, ha quantificato un risparmio di 3 euro a famiglia. Di cosa parliamo? Inezie.

A conferma che si tratta di una mera campagna populista, volta a riscuotere facile e cieco consenso, annoto letteralmente un’altra motivazione dei sostenitori riformisti: “Votiamo sì, perché il Parlamento è il cuore della democrazia”. Bene, siamo tutti d’accordo, ma qual è la relazione tra questa affermazione e la modifica costituzionale? Nessuna, appunto.

La verità è che questa scure verticale si abbatte senza criterio e senza ragione ponderata. Senza entrare nei tecnicismi, ci sono invece almeno tre motivi validi per votare “No”.

  • Ridurre il numero degli eletti significa ridurre la rappresentanza: meno eletti rappresentano meno potenziali istanze da rappresentare. Tant’è che tra i grandi paesi europei l’Italia si prospetta a diventare il Parlamento più piccolo in proporzione alla popolazione;
  • Meno eletti significa gruppi parlamentari più piccoli, meglio controllabili dai vari capibastone, con buona pace del dibattito corale e della democrazia;
  • Meno eletti significa meno impedimenti nel processo decisionale, col rischio che le leggi siano sì più rapide, ma anche più impulsive e più incomplete. Il Parlamento nasce dalla Carta Costituzionale come luogo per dibattere, confrontare, accogliere, arricchire. Doveva essere un organo per incrementare il confronto, non per protocollare le scelte di pochi. Seguendo questo ragionamento capzioso, la dittatura dovrebbe essere la migliore delle opportunità, perché per definizione non ammette distrazioni parlamentari.

Questa riforma instilla solo un’illusione di vendetta contro una casta inarrivabile e maledetta, una vendetta scatenata per il gusto di fare giustizia sommaria ed illudendo il popolo che è nel suo immediato interesse farlo. Nel suo libro “Populismi 2.0” il professor Revelli annota che “in genere i populismi assumono un linguaggio e uno stile rivoluzionario, senza tuttavia necessariamente rinviare a radicali rimesse in discussione degli assetti sociali, anzi spesso limitando la dimensione radicale del mutamento al solo livello del personale di governo”. È quanto sta accadendo, né più, né meno.

Andando indietro, invece, già Polibio aveva individuato il vero rischio. Si arriva all’olocrazia (o governo della plebe), degenerazione della democrazia, quando smarrito il valore dell’uguaglianza il popolo ambisce solo alla vendetta.

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Occhio non vede, cuore non duole

In molti paesi per vincere le elezioni la politica di sinistra ha capito che doveva diventare di destra
(C.W. Brown)

Di ritorno dalle vacanze ho appreso una notizia terrifica, passata silenziosamente un po’ sotto l’uscio dei media. Il Governo italiano ha rifinanziato, aumentandone addirittura l’importo, gli stanziamenti alla Guardia Costiera libica.

Una Guardia Costiera che, come dimostrato dai report delle Nazioni Unite e da numerose inchieste giornalistiche, è composta e gestita da milizie criminali locali. Truppe di delinquenti che speculano sul traffico degli esseri umani attraverso i centri di detenzione. Una sorta di diga dell’immigrazione, che regola i flussi dei migranti in base alle esigenze del momento. Quando pagano i governi la diga si chiude, quando pagano i trafficanti la diga si riapre un po’. Nel mezzo violenze, detenzioni, abusi, torture, omicidi.

Dunque, se a destra la politica per l’immigrazione si fa sbraitando “porti chiusi”, a sinistra Pd e Cinque Stelle predicano ipocritamente l’accoglienza, nascondendo però la polvere sotto il tappeto. Ufficialmente i porti rimangono aperti, ma paghiamo i criminali perché facciano il lavoro sporco bloccando le partenze direttamente nei lager. Alla fin fine se occhio non vede, cuore non duole.

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L’ignavia dell’Ilva

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto

(D. Alighieri, Divina Commedia – Inf. III, 58-60)

Papa Celestino V è ricordato soprattutto per la sua ingenuità ed incompetenza nella gestione amministrativa della Chiesa, che fece precipitare l’istituzione in uno stato di profonda confusione. Dopo solo quattro mesi dall’elezione, rinunciò giocoforza all’ufficio di pontefice spianando la strada a Bonifacio VIII.

Per questo motivo nel vestibolo della Divina Commedia è annoverato tra gli ignavi, cioè tra coloro che non seppero prendere una posizione chiara, che non agirono mai né nel bene né nel male, che non osarono mai suggerire un’idea propria.

Da ignavia ad Ilva il passo (almeno allitterato) è breve. Quella di Taranto è una situazione certamente intricata e complessa, dove i cavilli legali sembrano avere il sopravvento su qualsiasi previsione e reazione logica. Per trovare la quadra servirebbe un Premier esperto di questioni di diritto, magari un avvocato (!).

Personalmente, magari sbagliando per manifesta incompetenza, ritengo doveroso togliere alibi aggiuntivi attraverso l’eliminazione dello scudo penale. Ma capisco anche chi sostiene unicamente le ragioni della salute come bene esclusivo, proponendo la chiusura forzata ad ogni costo.

Al di là di ogni posizione, comunque la si pensi, l’importante è avere un’idea di fondo e sostenerla argomentando e cercando elementi utili all’obiettivo da raggiungere. Quello che noto e contesto, invece, è una completa mancanza di una visione e previsione comune da parte della compagine di governo. Non ho capito se vogliono la riapertura da parte di Ancelor, la chiusura previa bonifica dell’area, la nazionalizzazione, la riconversione ad altro ancora.

L’ultima notizia è che siamo arrivati al concorso di idee, dove il presidente del Consiglio chiede a tutti i Ministri di fare qualche proposta, come per organizzare la cena alla fine di un corso di fotografia. Prepariamoci, arriverà presto il momento dell’aiuto da casa: con una telefonata potrebbero chiederci la soluzione del rebus.

Ignavi_Dante_Antinferno

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La legge del taglione: favorevoli tutti

Un filosofo che non poteva camminare perché si pestava la barba, si tagliò i piedi

(A. Jodorowsky)

Oggi io avrei dato il Premio Nobel per la Pace a mia madre. Per due ragioni. La prima è che, se è in vena, fa dei capunsèi che sono la fine (meglio dire… l’inizio) del mondo. Potrebbero mettere d’accordo Americani e Coreani, Ebrei e Palestinesi, Juventini e resto del mondo. La seconda ragione è che mia madre non è mai stata ad Oslo, quindi potrebbe corredare la cerimonia di premiazione con un’inattesa vacanza.

Ma sulla sua candidatura mi trovo certamente schiacciato in una scomoda minoranza. Ne è la riprova il fatto che  nessuno da Oslo ha mai pensato di telefonarle.

Mi capita spesso di essere nella posizione inferiore, controcorrente verso la piena del fiume, quasi da salmone incompreso. Martedì il Parlamento ha licenziato definitivamente il taglio dei parlamentari: favorevoli tutti i partiti, o quasi. Capre che inseguono lo slogan populista “meno poltrone”. Chi per convinzione, altri per ovvia convenienza d’immagine.

Ebbi già modo di motivare il mio rifiuto con ragioni che hanno a che fare con la logica e con la storia.

La logica vuole che tagliare i rappresentanti significhi ridurre la rappresentanza: meno eletti rappresentano meno potenziali istanze da rappresentare. Tant’è che tra i grandi paesi europei l’Italia si prospetta a diventare il Parlamento più piccolo in proporzione alla popolazione. Va da sé che gruppi parlamentari più piccoli sarebbero meglio controllabili dai vari capibastone. Ma è anche questo l’obiettivo della riforma: tagliare le persone per avere meno impedimenti e leggi più rapide nella loro approvazione. Seguendo questo ragionamento capzioso, la dittatura dovrebbe essere la migliore delle opportunità, perché per definizione non ammette distrazioni parlamentari.

La storia poi, attraverso la Costituzione, dovrebbe ricordarci che il Parlamento era stato pensato come organo di dibattito aperto, di confronto, di rappresentanza delle molteplici posizioni dell’elettorato. Ridurre i parlamentari significa ridurre questo ruolo di discussione e confronto, significa solo rafforzare l’esecutivo.

Ora arriveranno i cavoli amari, perché dovranno per forza di cose essere modificate la legge elettorale ed anche la Costituzione. Rimane la vaneggiante speranza di un referendum confermativo (simil Renzi 2016) in grado di ribaltare il verso della corrente e di salvare capra, cavoli e salmone.

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Non voglio mica la luna

Questo è un piccolo passo per l’uomo, un gigantesco balzo per l’umanità

(N. Armstrong, 1969)

Il 21 luglio 1969, Neil Armstrong usò queste parole per descrivere l’epocalità dell’evento che stava vivendo. Ieri non siamo sbarcati sulla luna, ma nel nostro retrogrado medioevo italico è irrotta un’altra svolta importante. Il Comitato Nazionale di Bioetica ha sancito che “c’è differenza tra suicidio assistito ed eutanasia”. Non è una sentenza, non è una legge. È un semplice ed autorevole parere, che invita il legislatore ad occuparsi dell’argomento, ad affrontare un tema spinoso e scomodo. Il Comitato chiede di “svolgere una riflessione sull’aiuto al suicidio a seguito dell’ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale”. Purtroppo anche questo Parlamento ha ignorato l’annosa questione: in Italia non si può ottenere il suicidio medicalmente assistito, ma si può decidere di interrompere le cure e l’alimentazione, morendo evidentemente di dolorosi stenti. Faccenda paradossale che, comunque la si pensi, necessita di essere normata.

Ha insabbiato ogni dibattito anche questa maggioranza di Governo, che a mio parere raduna le due componenti realmente più laiche del Parlamento (giocoforza vanno escluse le numericamente risibili rappresentanze radicali e l’estrema sinistra).

Non voglio mica la luna, ma se non lo fanno loro chi se ne occuperà mai?

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Dacci un taglio

Un filosofo che non poteva camminare perché si pestava la barba, si tagliò i piedi

(A. Jodorowsky)

Accedo di rado a Facebook, ma soprattutto non commento mai i post pubblici. Più che altro per una questione di principio: mi sembra sempre preferibile estraniarsi dai pollai dove ogni chiocciare, dal più sciocco al più autorevole, hanno lo stesso peso e la stessa visibilità. “Uno non vale mai uno”, soprattutto quando le opinioni pretendono d’intersecarsi con le questioni tecniche oggettive.

Il Ministro Fraccaro, che peraltro mi è anche simpatico, ha postato un logoro slogan ad effetto, “taglio dei parlamentari: meno poltrone, più efficienza”. Ha argomentato la boutade con un sillogismo discutibile, secondo il quale la riduzione dei parlamentari migliorerà “la qualità della nostra democrazia e la capacità del Parlamento di rappresentare le istanze del Paese”. Non ho resistito. Ho chiesto timidamente che mi venisse spiegato come “meno parlamentari” potesse portare a più qualità della democrazia ed a più istanze rappresentate. Una sola aficionada ha azzardato rispondere con il solito ritornello che “meno parlamentari significa un parlamento più snello, leggi più veloci, leggi più numerose”. Ho obiettato che ridurre i rappresentanti significa ridurre la rappresentanza (è matematica, giusto?), e significa dunque ridurre le potenziali istanze. In termini assoluti, ciò non migliora la democrazia.

Seguendo la logica di questi sordi seguaci, nessun parlamentare significherebbe più leggi, dunque più istanze, dunque più democrazia. Il paradosso sarebbe allora che la dittatura dovrebbe corrispondere alla democrazia massima.

In generale passa il messaggio “meno parlamentari = meno spese”, ma nessuno spiega perché sono così tanti. Nessuno ricorda che la Costituzione aveva immaginato un organo dove si dibattesse, ci si confrontasse, dove venissero rappresentate le molteplici posizioni dell’elettorato. Ridurre i parlamentari significa ridurre questo ruolo di discussione e confronto, significa rafforzare l’esecutivo. “Meno parlamentari” significa “meno rappresentanti”, quindi meno confronto e più agilità per il Governo che decide. Per lo stesso motivo Renzi voleva eliminare il Senato.

Boh, penso sempre che prima di riscrivere la Costituzione, sarebbe il caso di rileggerla.

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Mal di pancia

Pancia e saggezza crescono sempre insieme
(C. Dickens – Il Circolo Pickwick, 1837)

Premetto che non ho seguito l’avvincente confronto tra i candidati alle primarie del PD, trasmesso in orario improbo, praticamente carbonaro. Non ho avuto neppure la voglia di leggere qualche articolo analitico, che mostrasse le differenze sostanziali tra gli aspiranti leader.

Ovunque si sente parlare di contraddittorio morbido, scontato, diplomatico. Sagra delle ovvietà, fiera del buonismo. In ogni caso, avrei criticato le profonde divisioni, tanto quanto sto criticando la piattezza condivisa. Difetto genetico dei criticoni snob.

Il dato di fatto è che non emergono grandi differenze sulle linee programmatiche, sulle possibili alleanze, sulla direzione da imboccare (più a sinistra, più al centro, verso destra?).

La conseguenza più prevedibile è che il segretario del principale partito d’opposizione verrà scelto a pelle, per simpatia, per sensazione, in perfetta linea con lo stile dei tempi, dove a guidare le opinioni sono le pance, non i cervelli.

La mia pancia vede Giachetti come l’amico atono di Renzi, vede Zingaretti come la nomenklatura burocratica e impastata, vede Martina come il “papassino” senza polso e senza carisma. Ma per fortuna la mia pancia non vota.

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La democrazia di gufetta

I depositari del potere esecutivo non sono i padroni del popolo, bensì i suoi funzionari; esso può nominarli o destituirli quando gli piaccia

(J.J. Rousseau, Il contratto sociale)

Da oggi gli iscritti alla piattaforma Rousseau decreteranno se i senatori M5S dovranno votare l’autorizzazione a procedere per il Ministro degli Interni. Non si tratta di un’elezione, e non è neppure un referendum abrogativo. È un tipo di voto nuovo, un’evoluzione democratica. Tramite una società privata, gufetta99 e arnaldo58, senza aver letto uno stralcio di norma, senza conoscere una riga di diritto costituzionale, senza aver visto una pagina di relazioni da parte di commissioni ed addetti ai lavori, decideranno se il potere legislativo dovrà chiedere al potere giudiziario di giudicare il potere esecutivo. È tutto talmente semplice e lineare da sembrare quasi accettabile.

Carta Costituzionale scambiata per carta igienica. Con l’aggravante di una pretesa democratica, sempre più panacea di ogni male. In verità, in questa scelta di delega c’è la sintesi perfetta del momento: l’ignoranza, l’improvvisazione, la deresponsabilizzazione, la noncuranza del futuro. Gufetta99 dirà cosa devono fare i senatori, anche se non ha neppure l’età per candidarsi al Senato. È davvero una persona fortunata.

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L’arte di improvvisare

A volte funziona, a volte fallisce, ma è quello che succede quando abbiamo a che fare con l’improvvisazione
(J. Garbarek)

Se non sai fare il caciucco alla livornese, ma inviti pomposamente gli amici a degustarlo e poi butti dei sofficini in una pentola di ketchup, c’è il forte rischio di deluderli. Allo stesso modo, se non distingui un condizionale da un congiuntivo, difficilmente vincerai il Pulitzer.

In alcuni ambiti l’arte di improvvisare, pur rappresentando un nobile esercizio di fantasia e una legittima pratica di adattamento, spesso non paga.

Il Governo italiano sta improvvisando la politica estera. Non gli manca solo la capacità, gli manca anche una vaga idea della direzione da intraprendere, gli manca un barlume di obiettivi da perseguire. E dunque improvvisa. Improvvisa quando non esprime una posizione chiara sulla crisi del Venezuela, non sapendo da che parte stare e raffazzonando dichiarazioni zoppe. Improvvisa attaccando apertamente la Francia, cioè usando il palcoscenico internazionale solo per alzare i toni della polemica interna e adescare qualche voto in vista delle regionali.

Il premier ha detto apertamente che “i Cinque Stelle hanno problemi di visibilità e hanno deciso di fare la guerra alla Francia”, mentre il vice-premier ha cercato invano alleanze con fantomatici sostenitori del golpe militare contro Parigi. Il risultato è ora una crisi diplomatica senza precedenti in Europa, che potrebbe avere ripercussioni economiche sull’export e che certamente avrà ripercussioni sulle relazioni tra i due paesi (appoggio internazionale, alleanze, accordi). Un altro passo verso l’isolamento europeo, tra stagnazione e recessione, un altro passo verso l’emarginazione dalle competizioni che ormai sono sempre più tra continenti e non tra singoli stati.

Il conto finale rischia di essere più salato del previsto. Ma nell’improvvisazione, per definizione, il “previsto” non esiste.

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Nuovo che avanza

La mattina la gente si sveglia e dice: da oggi cambio vita. Invece non lo fa mai

(Dal film Town)

 

Esercizio di alfabetizzazione funzionale. Cerchiamo alcuni termini sul dizionario e ne verifichiamo l’effettivo significato, misurandone il grado di novità rispetto al passato.

Cambiamento significa mutamento, trasformazione, variazione. Generalmente indica il passaggio da una situazione esistente ad una più evoluta. Di solito cambiare l’auto vuol dire averne a disposizione una più moderna rispetto alla precedente, mentre cambiare lavoro quasi sempre porta a migliorare la propria condizione occupazionale. Al di là delle valutazioni “migliore/peggiore”, è indubbio che secondo il senso comune “Governo del cambiamento” debba indicare una novità nell’amministrazione della cosa pubblica rispetto al passato.

Vediamo dunque i tratti di novità caratterizzanti il “Governo del cambiamento”.

Un primo elemento di originalità è rappresentato dal fatto che i partiti di governo si autoproclamano sovranisti, in aperta lotta con i dettami e i fondamenti dell’Unione Europea. Il Contratto di Governo rifiuta apertamente alcuni di quei precetti. Le dichiarazioni ufficiali e i primi decreti seguono la medesima linea. È in atto un’aperta contestazione alle istituzioni europee che ambisce, più o meno velatamente, ad obiettivi di separazione o fuoriuscita. Dal Trattato di Maastricht del 1992 nessun governo aveva mai messo in discussione l’impegno italiano verso l’Europa. Ma il sovranismo non nasce oggi. Viene coniato in Canada agli inizi degli anni ’60, nel quadro dell’indipendenza del Quebec. È una dottrina politica che sostiene la preservazione o la ri-acquisizione della sovranità nazionale, in contrapposizione alle politiche delle organizzazioni internazionali e sovranazionali.

Il sovranismo va di pari passo con il costante appello al sentimento dello stato nazione, ben sintetizzato nel celebre slogan “prima gli Italiani”. Lo Stato Nazione è una concezione politica partorita nel primo dopoguerra, cento anni fa. Si riassume nell’idea di far coincidere tassativamente l’apparato giuridico e amministrativo di un territorio (lo Stato) con la comunità che condivide lingua, cultura e religione (la Nazione). Già dai termini usati si può cogliere l’obsolescenza di questo concetto. Non c’è neppure bisogno di scomodare le nozioni di multiculturalità e globalizzazione per dimostrarne l’inesorabile vecchiaia.

Un’altra ventata di novità arriva dall’annuncio del Ministro dei Trasporti di nazionalizzare l’Alitalia e le autostrade. La nazionalizzazione è l’intervento con cui lo Stato acquisisce la proprietà o il controllo di determinate industrie private, o l’esercizio di alcune attività di preminente interesse generale. È del 1905 la nazionalizzazione delle ferrovie, del 1912 quella delle assicurazioni sulla vita, del 1962 quella dell’energia elettrica. Dagli anni ‘80 la manifesta inefficienza produttiva delle imprese statali ha determinato in molti Paesi un progressivo ridimensionamento delle stesse.

La strabiliante invenzione della pace fiscale. Prevede la rottamazione delle cartelle con aliquote forfettarie e ridotte, la possibilità di presentare una dichiarazione integrativa, in cui si afferma che all’epoca della dichiarazione originaria non si era comunicato tutto il dovuto, la cancellazione totale ed automatica dei debiti inferiori a mille euro, multe comprese. Quasi quasi viene in mente il condono, cioè l’annullamento di una pena o di un debito. Sono stati circa ottanta dall’Unità d’Italia ad oggi. Se il primo condono fiscale risale all’Imperatore Adriano, va detto che da Rumor a Spadolini, da Craxi ad Andreotti, da Dini a Berlusconi… nessuno è rimasto indenne di fronte alla tentazione di abbuonare le pendenze fiscali dei cittadini meno virtuosi.

Il deficit come sorprendente idea programmatica per crescere. La nota di aggiornamento al Def prevede una massiccia spesa in deficit di bilancio. Fare deficit significa spendere più di quello che si guadagna. Significa programmare le spese o gli investimenti, sulla base di risorse prese a debito. Il deficit è essenzialmente l’eccedenza del passivo sull’attivo e come si può facilmente immaginare non è proprio un escamotage di primo pelo. Sembra strano, ma c’avevano già pensato in tanti.

Sosteneteci comprando i Btp”. Con un appello a carattere nazionale, il Ministro degli Interni invita il popolo a comprare debito pubblico, al fine di sostenere le spese del Governo. Trovo una sottile assonanza con “Oro alla patria”, la manifestazione a carattere nazionale organizzata dal regime fascista nel 1935. Gli italiani furono chiamati a donare i loro gioielli per sostenere le spese belliche.

Con l’impropria dicitura di “Reddito di cittadinanza” ritorna il sussidio di disoccupazione, spendibile solo per acquisti morali. Sarà il Governo a decidere cosa è morale e cosa non lo è. Viene in mente la canzone di Jannacci, dove il barbone dice: “Tu sei uno di quelli che se gli chiedono mille lire, dicono ‘mi raccomando non se le beva’. Cosa te ne frega a te se me le bevo? Oscar della bontà!” L’assistenzialismo è definito come la degenerazione del sistema di assistenza pubblica e sociale, in cui lo Stato interviene con l’erogazione di fondi a cittadini, senza un piano efficace per il loro utilizzo e allo scopo di acquisire consensi. La storia d’Italia, insomma.

cambiamento

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