Archive for novembre 2019

Mettiamo l’accento

So di non sapere

(Socrate)

Chi ha la fortuna di dominare le regole degli scacchi sa che il mulinello e l’infilata sono due tattiche ben distinte. Chi frequenta abitualmente le macellerie ben comprende la differenza che passa tra lo scamone e il girello. Allo stesso modo, chi scrive in lingua italiana dovrebbe sapere che apostrofo e accento sono due cose differenti, non intercambiabili.

L’apostrofo nasce in caso di elisione (caduta di una o più lettere), l’accento serve invece per distinguere la pronuncia più intensa di una sillaba rispetto alle altre.

Non è il caso di addentrarsi in encicliche su accenti gravi, acuti e circonflessi, troncamenti ed elisioni. È sufficiente dire che l’utilizzo indiscriminatamente commutabile di apostrofo e accento rappresenta un errore. Non è questione di etica, né di estetica. È semplicemente un errore grammaticale, come le “h” fuori posto, le doppie zoppe o i congiuntivi randomici.

Non è neppure il caso di salire sullo scranno dei saccenti, poiché è capitato e capita a chiunque di confonderli o di accettare le proposte che i programmi di scrittura fanno irresponsabilmente in nostra vece. Alcuni esempi: E’ / È, Po’ / Pò.

La cosa grave è che a fregiarsi dell’errore sia addirittura un’università. Scorgendo il logo della Bicocca si può notare la maldestra svista nell’uso dell’apostrofo in luogo del naturale accento. Superficialità di un rettore, cecità di qualche organo direttivo, ignoranza di un grafico? Poco importa. In una delle sedi del sapere… semplicemente non sanno.

Bikokk

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L’ignavia dell’Ilva

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto

(D. Alighieri, Divina Commedia – Inf. III, 58-60)

Papa Celestino V è ricordato soprattutto per la sua ingenuità ed incompetenza nella gestione amministrativa della Chiesa, che fece precipitare l’istituzione in uno stato di profonda confusione. Dopo solo quattro mesi dall’elezione, rinunciò giocoforza all’ufficio di pontefice spianando la strada a Bonifacio VIII.

Per questo motivo nel vestibolo della Divina Commedia è annoverato tra gli ignavi, cioè tra coloro che non seppero prendere una posizione chiara, che non agirono mai né nel bene né nel male, che non osarono mai suggerire un’idea propria.

Da ignavia ad Ilva il passo (almeno allitterato) è breve. Quella di Taranto è una situazione certamente intricata e complessa, dove i cavilli legali sembrano avere il sopravvento su qualsiasi previsione e reazione logica. Per trovare la quadra servirebbe un Premier esperto di questioni di diritto, magari un avvocato (!).

Personalmente, magari sbagliando per manifesta incompetenza, ritengo doveroso togliere alibi aggiuntivi attraverso l’eliminazione dello scudo penale. Ma capisco anche chi sostiene unicamente le ragioni della salute come bene esclusivo, proponendo la chiusura forzata ad ogni costo.

Al di là di ogni posizione, comunque la si pensi, l’importante è avere un’idea di fondo e sostenerla argomentando e cercando elementi utili all’obiettivo da raggiungere. Quello che noto e contesto, invece, è una completa mancanza di una visione e previsione comune da parte della compagine di governo. Non ho capito se vogliono la riapertura da parte di Ancelor, la chiusura previa bonifica dell’area, la nazionalizzazione, la riconversione ad altro ancora.

L’ultima notizia è che siamo arrivati al concorso di idee, dove il presidente del Consiglio chiede a tutti i Ministri di fare qualche proposta, come per organizzare la cena alla fine di un corso di fotografia. Prepariamoci, arriverà presto il momento dell’aiuto da casa: con una telefonata potrebbero chiederci la soluzione del rebus.

Ignavi_Dante_Antinferno

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The wall

“All in all you’re just another brick in the wall”

(Pink Floyd)

Ricordo che l’approccio alla materia “italiano” del Ginnasio fu molto morbido: mi diedero da fare un tema sulla crisi delle ideologie del XX° secolo. Venivo dalla terza media di provincia, a malapena conoscevo il significato della parola “crisi” e per le “ideologie” ero ancora più indietro. Ricordo solo che feci espliciti riferimenti alla caduta del Muro di Berlino, additandolo come simbolico inizio della fine di un’era. Il tema ovviamente non fu un trionfo, ma concepì una pietosa, seppur salvifica, melina d’ovvietà.

Esattamente trent’anni fa cadeva il Muro di Berlino. Non fu evidentemente un evento consumato in poche settimane, ma l’epilogo di un lungo e complesso processo di trasformazione. Parlare del Muro significa aprire un mondo di dibattiti, su cui esiste una letteratura sterminata che va dalla storia dell’Ungheria, a Solidarność, alla vicenda di Emanuela Orlandi.

L’eredità di quell’abbattimento metaforico dovrebbe oggi essere un sentimento pienamente europeo ed europeista. Il ricordo delle separazioni, dei coprifuoco, delle limitazioni alla libertà, di una guerra perennemente incombente dovrebbe echeggiare oggi come un monito. Nazionalismi e sovranismi sembrano invece imboccare la direzione opposta e trascinarci indietro, verso divisioni e ghetti.

Trabant

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