Archive for agosto 2008

Alla conquista della Tofana di Rozes

L’appuntamento è in un minuscolo paesello ai confini tra le sperdute campagne di Vicenza e Padova. Mi accoglie un insolito e foriero cartello: “Grantorto, città della speranza”. Supero il camposanto (sic) con lo spirito d’osservazione di chi sa leggere i segnali del destino. Simone, il mio compagno d’avventura (di seguito “Vicensa”), mi aspetta pochi metri più avanti, con la sua aria fiera e dimessa insieme.
La strada per raggiungere il Rifugio Dibona (2053 mt) è lunga. Arriviamo verso il tramonto, giusto in tempo per l’ottima cena. Gustosi casunziei ed una polenta col formaggio fuso che ha il peso specifico del polonio. La pagherò cara durante la notte. La serata scorre tra grappe, pianificazioni d’itinerario e discorsi strampalati. Poi arriva la notte, poco silenziosa nelle russate della nostra camerata, ma portatrice di un discreto sonno.
Ci mettiamo in marcia alle 7.45, la giornata è meravigliosa. Guardandola da sotto, la Tofana di Rozes giganteggia con i suoi possenti strapiombi ed incute un certo timore. Mentre la aggiriamo attraverso il sentiero, pensiamo che fra qualche ora la conquisteremo e la domeremo. È una sfida. Vicensa ha riempito lo zaino di cianfrusaglie inutili, nel disperato tentativo di convincere la sua debole psiche di essere equipaggiato al meglio. Pantaloni lunghi in vigogna di Vimodrone, piccozza da minatore belga con manico piombato, farmacia da campo con barrette energetiche d’ogni sorta, pastiglioni dopanti e fiale da allevamento equino. Un leggerissimo dubbio lo convince a lasciare a valle i pesantissimi ramponi in ghisa.
La partenza della ferrata Lipella è una lunga galleria buia, retaggio della I° guerra mondiale. Saliamo agili con le pile, lungo il budello buio ed umido. La roccia trasuda e gocciola in continuazione. L’atmosfera, è talmente carica di storia, che il cunicolo sembra stillare lacrime di guerra e sofferenza. Ci chiediamo come si poteva percorrere una tale galleria negli inverni più freddi di cent’anni fa, vestiti solo di giacche di lana e con scarponi decisamente poco tecnici. Doveva davvero essere un patimento atroce.
Dopo cinquecento metri di buio, il tunnel termina con una splendida vista sulla val Travenanzes. Per ora il percorso è semplice e paesaggisticamente molto bello. La strada si fa pianeggiante anche se molto esposta. Spettacolare a vedersi, semplice a farsi. Ai piedi della parete ovest, il cavo metallico inizia ad impennarsi verticalmente. Qualche buon passaggio tecnico e molta fatica ci fanno capire che non sarà una passeggiata. Vicensa, mosso a compassione, decide di far passare qualcuno degli alpinisti che abbiamo dietro. In mezzora lasciamo transitare genti d’ogni razza, censo e religione. Sembriamo i portieri della Tofana: arriva la gente, salutiamo e facciamo il gesto del “lascia passare” con la mano. Eravamo i primi e giungeremo in vetta praticamente per ultimi, diavolo d’un vicentino maledetto!
È quasi ora di pranzo quando arriviamo al bivio delle Tre Dita (2680 mt), poco più di una cengia, in cui si può scegliere se attaccare la vetta con l’ultimo pezzo di ferrata, oppure accedervi attraverso il sentiero. Non prendiamo nemmeno in considerazione la seconda ipotesi e dopo un po’ di cioccolato e uva passa (io) e barrette al polistirolo (Vicensa), riprendiamo la marcia. È il tratto più ripido, più duro e più intenso di tutta la via. Un’enorme parete bianca, a tratti bagnata, che non finisce mai. Dicono che siano 300 mt in verticale, ma a me sembra una salita di chilometri, di giorni interi. Le braccia iniziano a vacillare e anche la lucidità di manovra non è più la stessa delle ore precedenti. La tecnica consiste nel procedere senza guardare troppo in su, altrimenti ogni sforzo sarebbe mortificato e vanificato da una fine che proprio non si riesce a scorgere. Ogni piccolo camino, o tetto che si supera, desta l’illusione che sia finita. Invece ogni volta c’è un’altra parete, poi un’altra ancora. Un piccolo spavento quando sulla roccia bagnata lo scarpone perde aderenza. Rimango appeso con le mani, non faccio neppure in tempo a lasciarmi penzolare dal cordino di sicurezza, ma mi brucio gli avambracci. Sotto, un vuoto di centinaia di metri.
Sono al massimo dello sforzo, perché il tratto è il più impegnativo ed il percorso inizia a farsi lungo, e ad un certo punto… suona il cellulare. A 3000 mt. la suoneria personalizzata per Rodella (“c’è un amore in ogni borsello…”) risuona per tutta la val Travenanzes. Non posso lasciarlo squillare a vuoto. Rispondo con un rantolo di voce: “Andrea, lasciami in pace, sono attaccato via a tremila metri!”. “Hai solo un attimo, ti devo parlare del fantacalcio?”. “Nooooo, ti chiamo dopo!”. Per un istante penso che siano le allucinazioni, poi mi accorgo che è tutto assurdamente vero.
Da sotto, Vicensa appare in evidente difficoltà. Gli scatto qualche foto e poi lo vedo fare coppia con un vecchio tedesco. Simone parla, si incita da solo, ed il tedesco, che gli affonda il fiato sul collo, gli risponde sempre: “Ja”. Sembrano amici da una vita, invece si parlano solo da qualche minuto. Io continuo, non lo aspetto. Dovrei cambiare il mio ritmo di salita ed in fin dei conti siamo quasi alla fine. E poi tutto sommato, Vicensa si è trovato un buon assistente sociale.
Arrivo al termine della ferrata, all’anticima lunare (3027 mt) che mai mi sarei aspettato. Mancano ancora duecento metri per giungere alla vetta. Dopo qualche minuto vedo avanzare il vecchio tedesco, col tipico cipiglio da recluta della Luftwaffe. Gli chiedo notizie del nostro compare e in un inglese traballante mi dice che è rimasto dietro. Attendo, ma un po’ mi preoccupo. Poco dopo, dalle rocce emergono nell’ordine: la punta della piccozza che sovrasta lo zaino, il caschetto bianco, gli occhialetti blu, l’espressione tramortita, ma viva. È lui! Non parla, si trascina i piedi e ciondola la testa. Un pugile suonato, tramortito. Riesco a malapena scambiarci due parole, poi ripartiamo per la vetta.
A 3225 mt il panorama incanta. Pensi a l’immenso, a Dio, a quanto siamo piccoli ed insignificanti rispetto all’universo. Da quassù la Marmolada, il Cristallo, le Torri del Vaiolet sono tutt’uno. È difficile articolare le parole, perché la vista del paesaggio annebbia i sensi e soprattutto la ragione. Si gira la testa a trecentosessanta gradi, di continuo, nell’insensata paura di non poter vedere tutto.
Mi godo i meritati panini, mentre Vicensa riprende le sue barrette e i pastiglioni dal sacchetto della farmacia. È un pranzo questo?
La discesa al rifugio Giussani (2600 mt) è attraverso un ripido sentiero ghiaioso. Vicensa si attacca silenzioso ed esanime alle mie calcagna (mi dirà di aver letto qualche centinaio di volte la scritta “tecnica” sul retro dei miei scarponi). Mentre scendiamo, notiamo un elicottero che insistentemente scruta le pareti della Tofana di Mezzo. Giunti al rifugio, scopriremo che stava cercando un disperso. Dal Giussani al Dibona è una gara per chi arriverà primo. I piedi esplodono negli scarponi, ma il dolore non può sovrastare il desiderio di vincere anche questa ultima sfida. Mi fermo a fare una foto e Vicensa scatta biecamente di corsa. Un distacco di cento metri che fatico a recuperare. Ma poi inizia la mia fuga, e per Vicensa rimane solo la polvere che si posa sul suo secondo posto.

 

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Kafkiane percezioni

Periodo particolare questo, in cui mi sovviene spontaneo descrivere sensazioni strane.
Avete mai letto Il processo di Kafka? È la storia di un uomo che si sveglia dall’oggi al domani imputato in un processo, senza saperne il motivo. Si ritrova improvvisamente in un vortice privo di senso, costretto a difendersi da accuse che non conosce, obbligato a parlare davanti a relatori che non esistono, forzato a spiegare circostanze che non ci sono. Una dimensione inverosimile, somigliante ad un enorme equivoco, che se non creasse palpabili disagi pratici, potrebbe dirsi a buona ragione un incubo, un’abbagliante allucinazione. Scrive Kafka: “…a farla breve non aveva più scelta, se accettare il processo o ricusarlo: ci stava dentro fino al collo e si doveva difendere. Se era stanco, pazienza”.
Stamani, ad una riunione di lavoro, ho provato le stesse allucinanti sensazioni. Tre quarti d’ora, immersi a parlare di segmenti di borsa da migrare, piattaforme, orari di mercato. La certezza di trovarsi fuori dall’acqua, in un vaso senza significati. L’evidente e tangibile realtà di un mondo diverso, al quale apparterranno altri (chi, poi?), ma non certo io. La sensazione di ritrovarsi in un luogo alieno, benché comprensibile, in uno spazio innaturale, fantastico. E sullo sfondo, l’inverosimile consapevolezza che era tutto vero. Che non si trattava né di sogno, né di equivoco.
Nessun altra domanda, nessun altra risposta. Perché qua si parla di sensazioni, quindi di apparato irrazionale. Non si parla di motivi, scelte, opportunità, che appartengono alla sfera della ragione.
Continua Kafka: “…quello che è successo a me non è che un caso singolo, e neppure tanto importante, ma è indicativo di un modo di procedere che viene adottato ai danni di molti altri. Io qui difendo loro, non me stesso”.

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I destini del cursore

Diverte il giamaicano Bolt. Piacciono la sua invisibile potenza, la naturalezza dei suoi gesti, il sarcasmo della sua corsa. È l’antieroe che mancava da tempo, capace di spezzare il fastidioso dominio degli statunitensi altezzosi. Suscita simpatia.
L’altra sera, probabilmente mentre Bolt allenava i suoi muscoli e temprava il suo fisico, correndo tra le strade di campagna che s’aggrovigliano sui nostri colli, ho incrociato un ragazzo paralizzato, che percorreva il mio stesso percorso in senso inverso, montando una carrozzina.
Qualche anno fa, cadendo da un’impalcatura, si è rotto la spina dorsale e non si è più retto in piedi. Lo conosco a malapena di vista, non lo vedo da prima dell’incidente. Lo ricordo al bar, col bicchiere in mano e la parlantina veloce. Nulla più. Mai stato particolarmente simpatico, indifferente direi. Ma quando l’ho incrociato, mi è uscito spontaneo un saluto e mi è preso un groppo alla gola. Non pena, né stupida cortesia… ma un’inspiegabile empatia. Ho sentito l’istinto, forse sciocco, di salutarlo e sorridergli.
La banale osservazione su quanto ci si debba sentire fortunati in questi casi, ho a malapena il coraggio di scriverla. Però credetemi, quell’incontro fortuito nel fare jogging mi ha suscitato davvero una strana ed indicibile sensazione. Mi ha fatto pensare. Non so bene a che cosa, ma mi ha fatto pensare.

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Odori di ferragosto

Partiamo da casa alle otto, quando il sole è già alto, nella consapevolezza che le buone cose possono essere vissute anche con calma, senza l’ansia della velocità o il pensiero fisso del traffico incombente.
La Val D’Adige è un torrente silenzioso, dove branchi di olandesi e tedeschi risalgono la corrente con le loro auto zeppe di valigie e biciclette, come trote dall’istinto primordiale dirette verso nord.
Ci fermiamo in una bottega dei sapori a Fai, per comprare panini allo speck e formaggio, che assisteranno la nostra salita. L’arrivo tra i gerani di Andalo somiglia all’attracco nel paesino nel “dì di festa”. I turisti zampettano ovunque, rapidi e gioiosi. Lasciata l’auto sulla strada per Pradel (1050 mt. circa), iniziamo la nostra salita con gli zaini in spalla e le grosse pedule. Qualche chilometro di asfalto tra i boschi per arrivare alla Baita Pradel (mt. 1367), dove ci si congiunge al primo tronco di funivia proveniente da Molveno (incipit alternativo e meno faticoso). Da qui inizia il sentiero 340: un’ora di facile cammino tra il bosco silenzioso e la parete esposta che sovrasta la valle. Sullo sfondo, il verde-azzurro del lago. L’aria pulita inebria le narici, in un connubio di essenze di pino e gradevoli fioriture. Arrivati al Rifugio Croz dell’Altissimo (mt 1430), viriamo a sinistra, superando il torrente e giungendo al Rifugio Selvata (mt 1630) in poco più di mezzora. L’ambiente ricorda le montagne americane dei film, dove le vette rocciose emergono dalle vaste pinete: welcome to the Marlboro country.
Da qui inizia la vera salita: impegnativa ed estenuante, ma proprio per questo gradevolissima. Prima uno zig zag tra il verde, poi qualche gradone roccioso. Dopo un’ora di ascensione si giunge alla baita dei Massodi (mt 1986), sosta tattica fondamentale per riprendere il fiato. Alzando lo sguardo s’intravede il Rifugio Pedrotti, che a me ricorda vagamente il film “Dove osano le aquile.” Un’altra ora mezza per arrivare allo spettacolare spiazzo roccioso che ospita il Rifugio a quota 2491. Davanti, il Campanile Basso appare e scompare, tra le nubi fumose ed il sole che si appresta a tramontare. L’approdo, dopo sei ore effettive di camminata e 1400 mt di dislivello, è in un’altra dimensione: qui il silenzio, spezzato solo dal fischio del vento, ridona pace e tranquillità alle gambe ormai provate e alle schiene che sembrano improvvisamente addormentarsi.
Posati gli zaini, l’ingresso nella camerata è un diretto allo stomaco. Tre loschi figuri sono sdraiati sulle brande, ai piedi dei letti gli scarponi e le calze fetide. L’aria è irrespirabile e se non fossero le sei di sera, verrebbe voglia di riscendere gambe in spalla. I tre non si lavano, andranno a letto vestiti e la mattina si alzeranno, calzeranno le pedule, e riprenderanno il cammino senza toccare rubinetto alcuno.
Ci laviamo alla bell’e meglio, perché l’acqua ghiacciata inibisce ogni intento purificatorio. Cena abbondante, ma qualitativamente deludente. La grande fame perdona anche lo chef più becero.
La notte è dura, spietata. La rete del letto ricorda le barche dei pescatori, mentre il tanfo che aleggia nella stanza rende l’aria mortale: vietato respirare ai non addetti ai fetori. Mi viene voglia di trapiantare i tappi dalle orecchie alle narici. Ma poi chi regge le russate di quei tre energumeni? Dormiamo poco, pochissimo.
La sveglia è una finestra dal vetro grigio, dove il panorama delle pareti rocciose va solo immaginato. Nuvole ovunque, insieme a qualche goccia di pioggia. Accantonata l’idea di ridiscendere da un sentiero diverso e più lungo, partiamo bardatissimi per il ritorno, ripercorrendo i nostri passi. Inizia a piovere ed il ferragosto si confonde con il prototipo del due novembre. Appena in tempo per rifermarsi la Selvata, al riparo dall’imminente diluvio. La sosta dura tantissimo, tra famigliole affogate, giovani rassegnati e temerari supermen, che hanno dovuto loro malgrado arrestare la corsa. Riprendiamo la discesa sotto l’interminabile pioggia, con l’odore acre dell’umidità che ci travolge i sensi. Di colpo il sole, prima di riguadare il torrente, che nell’arco di venti ore è diventato indomabile. Ancora qualche chilometro e ritorniamo alla nostra auto.
Ottimo itinerario di trekking, che mi sento di consigliare a tutti, esperti camminatori o famigliocce con seri problemi deambulatori. La prima parte da Pradel al Croz è semplicissima e scenograficamente meritevole.

P.S. Le facce della foto fanno schifo perchè ho dovuto abbassare la qualità dell’immagine… Boh, non sono più capace di caricare le foto come si deve. Help me!

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Italiani brava gente

Ho ancora nelle orecchie gli echi degli appelli alla sportività, lanciati dai giornalisti italiani alla nazionale olandese agli Europei di calcio di due mesi fa. Il processo alle intenzioni fatto a Van Basten, reo, prima ancora di scendere in campo, di voler maramaldamente impattare la sfida con la Romania. Rimbombarono le preghiere e le suppliche, echeggiarono i fondi di quotidiano ed i servizi televisivi, in nome della moralità sportiva, dell’etica agonistica. Appelli ed implorazioni lanciati unicamente per il fondato timore di tornarsene prematuramente a casa dalla competizione. Ovviamente chi ha il sospetto ha il difetto, e mentre l’Olanda e la sua cultura sportiva disputarono una partita esemplare, gli italiani ringraziarono, stupiti e increduli di fronte a tanta manna.
Pochi giorni fa, Italia – Camerun alle Olimpiadi di Pechino. In caso di pareggio, entrambe passerebbero il turno e gli azzurri eviterebbero di scontrarsi col Brasile. Un’invereconda ed interminabile melina, tra i fischi a mandorla e l’imbarazzo generale, consegna alle formazioni l’agognato 0 a 0. Ma Abete parla di fisiologica stanchezza, mentre i giornali italiani sussurrano appena la notizia, guardandosene bene dall’ingigantire il caso e badando a non accentuare la polemica, perché questa volta tocca a noi. Va bene così, perchè “Italiani brava gente”.

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Il solito male internazionale

Il male affonda le radici al termine degli anni ottanta, nel periodo di smembramento e disgregazione dell’Unione Sovietica. All’epoca, la regione dell’Ossezia venne divisa in due province: quella settentrionale sotto l’egida della Russia, quella meridionale destinata a gravitare nell’orbita della Georgia. Proprio l’indipendenza dello stato georgiano, dichiarata nel ’91, segnò la fine dell’autonomia della provincia meridionale, dando di fatto inizio ad un conflitto ancora in atto. Da una parte Osseti del sud, usurpati dell’autonomia e desiderosi di riabbracciare la madre Russa e da essa fomentati, dall’altra i Georgiani, con l’occhio aperto ad occidente e desiderosi di rosicchiare alla Russia anche i territori osseti. Grandi apparati d’armi, con l’Occidente e la Nato a sostenere la causa Georgiana, e l’ex Unione Sovietica ad armare i territori indipendentisti. Attori diversi, quasi povere comparse, a recitare il copione della Guerra Fredda plasmato dagli stessi registi di sempre, USA e URSS. Colpi di stato, accuse incrociate, isolati ed inconsistenti appelli alla pace, ma soprattutto tanti morti.
Gli scontri di questi giorni in Ossezia spingono pedantemente alla solita, scontata, riflessione. Quella della comunità internazionale che non c’è e che non vuole esserci. Organismi che dovrebbero vigilare ed agire in nome del bene comune e ispirarsi attraverso i criteri della democrazia. Quei criteri della serie: se la maggior parte del mondo dice che non dovete fare la guerra, la guerra non la fate. Invece i controllori sono chiamati a controllare se stessi ed il resto dei passeggeri se ne sta volentieri in silenzio. Vicolo cieco.

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Delizie in Croazia

 

Non ho mai avuto particolari simpatie per la Croazia. Retrogrado, antiquato, conservatore, intollerante. Definitemi come volete, ma a me i Croati non piacciono proprio. Nutro meschinamente l’impressione che se non fosse per i forzieri di euro che i turisti portano, e riportano l’anno dopo, non esiterebbero a sgozzarti per strada, anche solo per qualche spicciolo. Li ho sempre visti diffidenti e sospettosi, profittatori e poco propensi a socializzare.
Ciò che attira della Croazia è fondamentalmente il mare. Limpidezza e trasparenza, in miriadi di calette e baie nascoste, dove gli scogli e le spiaggette di ciottoli si susseguono senza soluzione di continuità. Le isole compiacciono gli occhi. Ne ho viste solo due, ma completamente diverse l’una dall’altra.
Due anni fa Pag, brulla e lunare, con l’aria angusta della terra che soffre, sembrava approcciarsi con un carattere ruvido e suscettibile. Vecchia e canuta come le bianche pietre di cui è ricoperta e come i pizzi per la quale è famosa. Tranquilla e pacifica, come la baia acquitrinosa della sua città capoluogo.
Quest’anno Hvar, verde e rigogliosa, che trasmette al turista un’aurea di spensierata esuberanza. La sua città principale, carica di gente e di locali rumorosi, invita alla vita, al prepotente divertimento estivo. Porto intraprendente e affollato, che scandisce i ritmi della vacanza a colpi di yacht e vistosi tacchi a spillo.
Se la costa rimane invivibile, soffocata nel cappio stringente della cementificazione selvaggia, le isole isolano in un’altra dimensione, fatta di natura, mare e sole.
La nostra prima sosta è stata a Trogir, ad una quarantina di chilometri da Spalato. Gioiellino dell’architettura veneziana che merita sicuramente una visita. Uno storico dell’arte statunitense ed autorevole critico, la definì come una delle poche città al mondo che annovera tante opere d’arte in così poco spazio. Poi Spalato, dove il Palazzo di Diocleziano racchiude straordinariamente la città vecchia e dove non si può rimanere indifferenti di fronte al fascino delle mura e delle vestigia romane: strati di città accavallati gli uni sugli altri. Si sentono le epoche storiche spingersi l’una contro l’altra: è impressionante. Poi poco altro. La città sopporta il peso delle caotiche e soffocanti periferie dell’est, dove i palazzoni fitti e mastodontici smorzano ogni fantasia d’evasione.
Un paio d’ore per raggiungere l’isola di Hvar. Ci siamo stabiliti a Milna, manciata di case sul mare, a quattro chilometri dalla città di Hvar. Per godere appieno del mare, è preferibile trovare alloggio fuori dalla città, molto affollata e troppo a ridosso del porto.
Oltre alla bellissima e sorprendente città capoluogo, dominata dall’alto dalla sua fortezza, sono da visitare anche Stari Grad e Jelsa. Entrambe si scoprono abbarbicate attorno ai rispettivi porticcioli; meglio la prima della seconda.
Ottimo il pesce, anche se ormai i prezzi dei ristoranti si stanno livellando a quelli italiani. Difficile cavarsela con meno di 30 euro a scatola cranica. Vino bianco pessimo. Meglio la birra che, essendo fresca, va giù davvero “come un terrone a Natale”.
Insomma, vacanza da consigliare a chi vuole mare, buon pesce e nel complesso non desidera spendere una follia.

Per lo speciale “Buona forchetta all’estero”, i ristoranti che ho provato sono:
Fontana (Trogir, lungomare): 7,5. I migliori calamari fritti che io abbia mai assaggiato. Il consiglio veniva dalla guida Routard. Merita davvero.
Godra (Hvar, lasciandosi la chiesa della piazza principale alle spalle, si deve salire la gradinata della prima via a destra): 7. Ottima aragosta alla griglia, pessimi gli spaghetti allo scoglio. Giardinetto interno molto piacevole.
Palladini (Hvar, una delle vie parallele alla piazza, in alto nella parte settentrionale della città): 6. Eccellente filetto di manzo, ma il servizio non mi piace. Tutti antipatici. Non c’è la birra media.
Moli Onte (Milna, lungomare): 7,5. Tavoli vista mare, ambiente familiare e il cuoco griglia il pesce sotto gli occhi dei clienti. Aragosta da prendere.
Marinero (Hvar, alla fine della piazza, lasciandosi sempre la chiesa alle spalle, su una delle viuzze a destra): 4,5. Specchietto per le allodole e per la mia morosa, visto che io non volevo andarci. Bella la sistemazione nella piazzetta seminascosta, ma gestione troppo fast. Prezzi bassi e qualità ancor più bassa. Da starci alla larga.
Paradise Garten (Hvar, lasciandosi la chiesa della piazza principale alle spalle, si deve salire la gradinata della prima via a destra. È poco prima del Godra): 5. Consiglio non azzeccato della Routard. Definiva irrinunciabili gli spaghetti allo scoglio: sono rinunciabilissimi.
La Luna (Hvar, una delle vie parallele alla piazza, in alto nella parte settentrionale della città, di fronte al Palladini): 8. Alla buona qualità si abbinano prezzi tutto sommato modici. Risotto ai frutti di mare tra i migliori che abbia mai assaggiato, meglio di quello di Gino a Duino. Da provare il piatto tipico di Hvar, la Gregada, ovvero pezzi di pesce vario, cotti in pentola con cipolle, patate e olio d’oliva. Anticamente era un piatto di recupero, dove finivano un po’ tutti i rimasugli. Cortiletto sopra l’edificio molto romantico e suggestivo.
Villa Samar (Trogir, porticciolo verso nord a 3-4 km dal centro storico): 4. Semplicemente pessimo, ma non c’era altro lì intorno.

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Granèra, granèrae

Dialogo sentito questa sera nella frazione Montagnoli, mentre correvo.
Scenario: davanti al cancello di casa, una famiglia contadina sta dialogando. Lui, settantenne col cappello di paglia si rivolge alla moglie, coetanea in abito a fiori. All’interno del cortile, la figlia.

Moglie: “Ancö è vegnì quela del Folletto
Marito: “Cus’èl èl Folletto?
Moglie: “Èl bagai de frigà ‘n tèra.
Marito: “Cus’èl èl bagai de frigà ‘n tèra?
Figlia: “L’aspirapolvere!
Marito: “Ma se dai, la granèra de na olta!

Adoro vivere in paese.

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Il ricordo della Bigia

Conserverò a lungo un ricordo simpatico della nonna Bigia. Sempre seduta nel giardino di casa, a guardare le persone che passavano nel viale. Sempre più numerose a causa della viabilità modificata, e forse sempre più veloci per i suoi occhi ormai anziani.
Ho nel cuore, prima ancora che nella mente, il suo risotto ai quattro formaggi, cucinato la vigilia di Natale di quindici anni fa. Nell’edizione “0” del nostro Opus Day, fu lei a preparare il primo piatto. Ci mise tutta la fatica e l’orgoglio accumulati in più di novant’anni (allora) e impiegai diversi giorni per digerire la pesantezza del suo sforzo. Ma fu come un sottile passaggio di consegne culinarie, da una generazione all’altra. Dall’anno dopo, infatti, iniziammo con l’edizione numero “1”, a cucinare da soli.
La ricorderò seduta sulla sedia, con la coperta sulle ginocchia, a godersi il fresco dei castagni ed il riposo di una vita lunghissima. Centoquattro anni di storia di Volta… avrebbe potuto scrivere un’enciclopedia.
Negli anni in cui frequentavo assiduamente il Tui, mi recavo a casa sua e lei fungeva da efficace receptionist. Fissava intensamente la mia vespa e non appena spegnevo il motore, lapidaria mi liquidava: “Èl Marco èl gh’è mia”. Aveva uno sguardo lucido e sottile, di quelli che puntano lontano e non lasciano scappare nessun particolare. Trasmetteva un’idea di meritata tranquillità. Buon riposo, nonna Bigia.

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