Odori di ferragosto


Partiamo da casa alle otto, quando il sole è già alto, nella consapevolezza che le buone cose possono essere vissute anche con calma, senza l’ansia della velocità o il pensiero fisso del traffico incombente.
La Val D’Adige è un torrente silenzioso, dove branchi di olandesi e tedeschi risalgono la corrente con le loro auto zeppe di valigie e biciclette, come trote dall’istinto primordiale dirette verso nord.
Ci fermiamo in una bottega dei sapori a Fai, per comprare panini allo speck e formaggio, che assisteranno la nostra salita. L’arrivo tra i gerani di Andalo somiglia all’attracco nel paesino nel “dì di festa”. I turisti zampettano ovunque, rapidi e gioiosi. Lasciata l’auto sulla strada per Pradel (1050 mt. circa), iniziamo la nostra salita con gli zaini in spalla e le grosse pedule. Qualche chilometro di asfalto tra i boschi per arrivare alla Baita Pradel (mt. 1367), dove ci si congiunge al primo tronco di funivia proveniente da Molveno (incipit alternativo e meno faticoso). Da qui inizia il sentiero 340: un’ora di facile cammino tra il bosco silenzioso e la parete esposta che sovrasta la valle. Sullo sfondo, il verde-azzurro del lago. L’aria pulita inebria le narici, in un connubio di essenze di pino e gradevoli fioriture. Arrivati al Rifugio Croz dell’Altissimo (mt 1430), viriamo a sinistra, superando il torrente e giungendo al Rifugio Selvata (mt 1630) in poco più di mezzora. L’ambiente ricorda le montagne americane dei film, dove le vette rocciose emergono dalle vaste pinete: welcome to the Marlboro country.
Da qui inizia la vera salita: impegnativa ed estenuante, ma proprio per questo gradevolissima. Prima uno zig zag tra il verde, poi qualche gradone roccioso. Dopo un’ora di ascensione si giunge alla baita dei Massodi (mt 1986), sosta tattica fondamentale per riprendere il fiato. Alzando lo sguardo s’intravede il Rifugio Pedrotti, che a me ricorda vagamente il film “Dove osano le aquile.” Un’altra ora mezza per arrivare allo spettacolare spiazzo roccioso che ospita il Rifugio a quota 2491. Davanti, il Campanile Basso appare e scompare, tra le nubi fumose ed il sole che si appresta a tramontare. L’approdo, dopo sei ore effettive di camminata e 1400 mt di dislivello, è in un’altra dimensione: qui il silenzio, spezzato solo dal fischio del vento, ridona pace e tranquillità alle gambe ormai provate e alle schiene che sembrano improvvisamente addormentarsi.
Posati gli zaini, l’ingresso nella camerata è un diretto allo stomaco. Tre loschi figuri sono sdraiati sulle brande, ai piedi dei letti gli scarponi e le calze fetide. L’aria è irrespirabile e se non fossero le sei di sera, verrebbe voglia di riscendere gambe in spalla. I tre non si lavano, andranno a letto vestiti e la mattina si alzeranno, calzeranno le pedule, e riprenderanno il cammino senza toccare rubinetto alcuno.
Ci laviamo alla bell’e meglio, perché l’acqua ghiacciata inibisce ogni intento purificatorio. Cena abbondante, ma qualitativamente deludente. La grande fame perdona anche lo chef più becero.
La notte è dura, spietata. La rete del letto ricorda le barche dei pescatori, mentre il tanfo che aleggia nella stanza rende l’aria mortale: vietato respirare ai non addetti ai fetori. Mi viene voglia di trapiantare i tappi dalle orecchie alle narici. Ma poi chi regge le russate di quei tre energumeni? Dormiamo poco, pochissimo.
La sveglia è una finestra dal vetro grigio, dove il panorama delle pareti rocciose va solo immaginato. Nuvole ovunque, insieme a qualche goccia di pioggia. Accantonata l’idea di ridiscendere da un sentiero diverso e più lungo, partiamo bardatissimi per il ritorno, ripercorrendo i nostri passi. Inizia a piovere ed il ferragosto si confonde con il prototipo del due novembre. Appena in tempo per rifermarsi la Selvata, al riparo dall’imminente diluvio. La sosta dura tantissimo, tra famigliole affogate, giovani rassegnati e temerari supermen, che hanno dovuto loro malgrado arrestare la corsa. Riprendiamo la discesa sotto l’interminabile pioggia, con l’odore acre dell’umidità che ci travolge i sensi. Di colpo il sole, prima di riguadare il torrente, che nell’arco di venti ore è diventato indomabile. Ancora qualche chilometro e ritorniamo alla nostra auto.
Ottimo itinerario di trekking, che mi sento di consigliare a tutti, esperti camminatori o famigliocce con seri problemi deambulatori. La prima parte da Pradel al Croz è semplicissima e scenograficamente meritevole.

P.S. Le facce della foto fanno schifo perchè ho dovuto abbassare la qualità dell’immagine… Boh, non sono più capace di caricare le foto come si deve. Help me!

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