Archive for aprile 2009

La pioggia nel pineto

Nell’atmosfera surreale di una pioggia ininterrotta e copiosa, mi è venuta in mente una poesia che tanto mi fece riflettere. La pioggia nel pineto, forse il più bel canto di D’Annunzio, è carica di emozioni. Sentimenti che debordano e permeano ovunque, come la pioggia che scende a dirotto nel bosco.

Il poeta passeggia sotto l’acquazzone con la sua donna, Ermione, ed in silenzio ascolta la musica delle gocce, la voce della natura, il sussurro delle piante e del bosco. L’empatia e l’armonia con l’ambiente circostante sono tali, che i due finiscono per subire una fiabesca metamorfosi vegetale. Il trasporto è così grande che gli amanti giungono ad una dimensione nuova, prima sognata, poi raggiunta.


Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell’aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immensi
noi siam nello spirito
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, Ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta: ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
( e il verde vigor rude
ci allaccia i melleoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

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La casta che perpetra se stessa

“Quando cominciai a bazzicare alla stazione dei taxi e a fare dei lavoretti dopo la scuola ho sentito che volevo essere dei loro. Fu là che capii che cosa significa far parte di un “gruppo”. Per me significava essere qualcuno in un quartiere pieno di gente che non era nessuno. “Loro” non erano mica come tutti gli altri, “loro” facevano quello che volevano, e nessuno chiamava mai la polizia… Giorno per giorno imparavo come si campava a sbafo, un dollaro qua un dollaro là. Vivevo come in un sogno”.

(Ray Liotta – Quei bravi ragazzi)

 

La modifica alla legge elettorale poteva costituire un piccolo, iniziale svecchiamento del dinosauro  politico italiano. Se è vero che i problemi del sistema sono tanti e complessi, è anche vero che l’avvento di una normativa elettorale più assennata e democratica poteva rappresentare un minuscolo passo verso il miglioramento. Perché in fondo da qualche parte si dovrà pur cominciare. L’iniziativa popolare che ha indetto il referendum non è certo volta a cambiare il mondo, ma un seppur minimo intento di evoluzione le va accordato. Depennare il meccanismo perverso che attribuisce il premio di maggioranza alla coalizione più votata (anziché alla lista) dovrebbe impedire l’invenzione di fantomatiche ed innaturali alleanze tra partiti. Il divieto poi delle candidature multiple eliminerebbe uno dei malcostumi tutti italioti,  quello di candidare i leader di partito in tutte le circoscrizioni, per accaparrare voti attraverso i cognomi altisonanti.

Queste, insomma, le buoni intenzioni del popolino.

Ma di fronte alle proposte in grado di minare anche esiguamente i privilegi acquisiti, la casta sfodera tutte le sue risorse di controffensiva. La politica sguaina ad uno ad uno tutti i gladi, per ostacolare anche il più inoffensivo dei cambiamenti.

Cerca innanzitutto di evitare il referendum, individuando pedissequamente vizi che ne inficino la forma. Qualora ciò non sia possibile, tenta di posticipare la consultazione. Benché non si potesse “sforare” la metà di giugno, quest’anno in fretta e furia si è votato un decreto per derogare la legge del 1970, che prevedeva l’indizione delle votazioni referendarie nelle date comprese tra il 15 aprile ed il 15 giugno. La pianificazione della data del 21 giugno scongiura infatti un alto quorum, sfavorendo di fatto il “popolo dei sì”.

Stabilita la stravagante data, la casta celerà ogni informazione, puntando all’astensione massiccia del volgo ignorante. Non avendo buone motivazioni per spalleggiare il “no”, sosterrà biecamente l’astensione. Convinta ed unita.

Il resto sarà un film già visto: con gli italiani a sonnecchiare sotto l’ombrellone, le urne vuote e la casta a festeggiare l’ultima vittoria prima del meritato riposo estivo.

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G8 all’Aquila, idea da rapaci

Ottima idea quella di spostare il G8 all’Aquila! L’ipotesi avanzata da Berlusconi di organizzare il meeting nella città devastata dal terremoto ha già incontrato il plauso dei vertici della provincia abruzzese e del sindaco. I riflettori puntati e la presenza dei grandi leader mondiali sarebbero indispensabili per una rapida rinascita.

Ma quanta gente può ospitare l’Aquila? Per una settimana i vigili del fuoco andranno in ferie, sostituiti da centinaia di guardie del corpo e scorte varie? Sgomberate temporaneamente le tendopoli, per metterci grandi fioriere colorate che abbelliscano l’ambiente? A spasso anche la Protezione Civile, perché per i grandi del mondo serviranno imponenti servizi di catering?

Che prezzo pagheremo per stravolgere e ripianificare di continuo l’organizzazione di questa città?

O forse un buon numero di manifestanti potrebbe distruggere quel poco che rimane dell’Aquila, favorendo di fatto la ricostruzione totale.

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AAA… “impuristi” cercasi

La mia generazione parla dei propri figli, citandoli con il semplice nome di battesimo. Non antepone, come facevano i nostri nonni ed i nostri padri, quell’impuro articolo determinativo tipico delle lingue lombardo-venete. “Il Silvio”, “il Piero”, “il Paolo”.

Sgrammaticato, scorretto, quasi da analfabeti. Eppure una ragione storica “quell’articolo lì” ce l’ha eccome. Deriva dall’abitudine di chiamare le persone con un riferimento colloquiale, come “il nostro caro Silvio”, “il nostro Piero”, “il nostro Paolo”.

Effetto della globalizzazione all’italiana, quella che sta bene attenta a parlare correttamente di fronte ai propri figli, quella che azzera le lingue locali ed i dialetti, in nome del comune verbo italico. Tutti diversi, figli di culture diverse, ma tutti uguali davanti alla lingua.

Per una volta abbandonate il purismo lessicale e rimanete sgrammaticati… qualcuno, dopo di voi, potrebbe ricordare da dove è venuto.

Il Silvio

 

 

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Libertà di disegno

La vignetta di giovedì scorso ad Annozero, relativa all’aumento delle cubature dei cimiteri per accogliere le vittime del terremoto, è costata la sospensione dalla trasmissione al disegnatore Vauro. Già in diretta, durante la carrellata delle bozze firmate dal vignettista toscano, ebbi la sensazione che fossimo di fronte al trionfo del cattivo gusto. Troppo cinismo, per un popolo di bacchettoni come il nostro. Ironia flebile, celata dietro un imbarazzante scivolone. Detto questo, e terminata la puntata, spensi il televisore guadagnandomi le agognate coperte: “questa sera ho riso poco”, mi dissi poco prima di prendere sonno.

Possiamo giudicare, entrare nel merito, criticare, rifiutare e bocciare la scelta di Vauro. Ma la cosa deve finire lì. Se partiamo dal presupposto della sacralità della libertà di espressione e dal rifiuto della censura, il gesto della sospensione appare inspiegabile, prima ancora che smisurato.

Sia il pubblico, insomma, a giudicare la qualità nella comicità di Vauro… non la censura arbitraria.

 

 

 

vauro1

 

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Terremoto inter nos

Qui si chiama fatalità.
Combatti il terrore, prova a dargli faccia e nome

(Litfiba – Terremoto)

Alle 2.50 di mercoledì scorso, l’ennesima scossa tellurica a Roma. “Richter 5.2” diranno i siti internet già nella prima mattinata. Sufficiente per abbattere la punta dell’obelisco sulla Cristoforo Colombo, quello che riuscivo a vedere dalle finestre dell’ufficio.
Alle 2.50 mi trovavo nel mio letto, a rigirarmi tra i precoci caldi dell’estate romana ed i fumi lievi di una falanghina campana, scorsa troppo abbondantemente durante l’ultima cena “da Franco ar vicoletto”. Pochi istanti per sentire il letto oscillare, muoversi, tremare. Qualche secondo per focalizzare la situazione e rendermi conto che questa volta si trattava del terremoto, non dell’ingombrante esuberanza della stanza a fianco. Nel dormiveglia, un lampo di lucidità. Mi sono detto: “se non termina entro il 3 (1, 2 e…3!), devo alzarmi e fare qualcosa”. Pochi secondi, che mi sono parsi minuti lunghissimi, e tutto si ferma. “Bene”, mi rassicuro. Giro il fianco e riprendo impassibilmente il sonno.
Pochissime volte in vita mia mi sono accorto dei terremoti, quasi mai ho avvertito pericoli di questo genere. Non so perché, ma in questi frangenti non ho nemmeno la sensazione del rischio. Ieri ho ripreso tranquillamente a dormire, ma accade anche in montagna, dove ho poca paura degli azzardi e dei pericoli incombenti e sono sempre gli altri a tirarmi indietro. Oppure col fuoco e i botti, che anzi mi attraggono. Superomismo? Non direi. Ho il terrore dei topi e degli uccelli, delle grotte e dell’acqua buia.
Paura e coraggio, panico e fermezza… poi mi chiedo quanto siamo grandi noi nel dominare queste situazioni con il nostro comportamento e quanto invece lo siano il destino, il fato, il caso, Dio, nel sormontarci, qualunque siano le nostre reazioni. Le solite domande, insomma, alle quali mai saprò dare risposta.

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Delle torri

“Convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre”.

(D. Alighieri – Purgatorio , Canto XVI)

 

Non ho partecipato all’inaugurazione delle torri restaurate. Il puntuale acume di qualcuno ha commentato il mio tardo arrivo alla cerimonia, contestandomi che “non vale… arrivare dopo un’ora di discorsi da parte delle autorità”, quando insomma il peggio è passato.

In realtà mi sono fermato all’inaugurazione solo cinque minuti, evitandomi di buon grado la retorica agricola dei padri fondatori e degli amministratori d’ogni livello.

Dal palco rosso, perfettamente agghindato, appare evidente il messaggio di paternità che l’amministrazione ha voluto dare all’evento. A due mesi dalle elezioni, la restituzione alla comunità delle torri restaurate e del percorso che permette di visitarle ha un’inconfutabile missione politica. Nemmeno lo sprovveduto cittadino voltese potrebbe in buona fede leggervi altre motivazioni. Emblematica la foto del sindaco con l’elmetto da cantiere, affissa all’ingresso… in saecula seculorum. Una sorta di monito: “Ricordate, cittadini, chi vi ha dato tutto ciò”.

Ma in questo caso, forse, il mezzo giustifica il fine. Insomma, che sia la propaganda a ispirare questo intervento di recupero architettonico poco importa.

La vista dalla sommità della torre granaria stuzzica l’orgoglio del cittadino voltese. Perché da lassù il panorama del paese è bellissimo. Al di là delle nozioni storiche e delle suggestioni culturali, che già da sole accrescono la bellezza dell’opera, è incantevole salire sul tetto di Volta ed ammirarne le accattivanti forme.

Il recupero delle torri, e la fruizione delle stesse, costituisce un accrescimento del nostro patrimonio. Felicità.

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