Archive for marzo 2006

Quale aliquota

Impazza nella campagna elettorale il tormentone sulla tassazione delle rendite finanziarie. L’accusa di un pericolo “new tax” sembra l’argomento più interessante ed importante sul quale incentrare ogni dibattito pubblico. Accusa e difesa sembrano concordare sulla imprescindibile centralità del problema.
Esistono due modi tradizionali per fronteggiare le necessità economiche nell’amministrazione di uno stato: il primo contempla il taglio delle spese (non ultime quelle sociali) e comunemente guida le politiche della destra; il secondo prevede l’aumento delle imposte e fa riferimento, in genere, al pensiero che ispira la sinistra.
Dalla presunzione di quest’ultima linea di governo, il centrodestra ha ipotizzato che i tagli del cuneo fiscale annunciati da Prodi non potessero non scaturire da una nuova imposta sulla rendite finanziarie. Il fatto poi che la parte più estrema del centrosinistra concordi da tempo su questa posizione, annunciando in ogni occasione detto intento, ha gettato ulteriore benzina sul fuoco della polemica.
Ma come stanno attualmente le cose? Per il momento i redditi in questione sono tassati in Italia con due aliquote diverse. Su depositi, conti correnti bancari e obbligazioni inferiori a diciotto mesi vi è una imposta sostitutiva del 27%. Sulle rendite derivanti da titoli di stato, buoni postali, obbligazioni superiori a diciotto mesi e azioni l’aliquota è del 12,5%. Le ipotesi sul tavolo sono dunque quella di uniformare le aliquote con una percentuale media (23%?), o di elevare a 27% anche l’aliquota più bassa. Oltre ovviamente alla possibilità di lasciare tutto invariato.
Nell’Unione Europea alcuni paesi come Gran Bretagna e Slovenia applicano un’imposizione ordinaria, ovvero personale e progressiva sul reddito. Altri, come Francia e Germania utilizzano aliquote uniche. In genere sono più alte del 20%, ma esistono parecchie casistiche di esenzione rispetto all’Italia. Nell’Europa del Nord (come sempre… più “avanti”) l’aliquota sui redditi di capitale è la stessa applicata nell’imposta personale progressiva sul reddito.

Da un lato dunque l’accusa del centrodestra, che sostiene la “deleterietà ” di un aumento d’aliquota nei redditi di capitale. Questo affosserebbe gli investimenti in titoli (anche di Stato), paralizzando Stato e Società quotate, oltre ovviamente a penalizzare i risparmiatori: gravarli di tasse maggiori non giova alla ripartenza. I capitali fuggirebbero all’estero, con buona pace della nostra ricrescita.
Dall’altro la difesa del centrosinistra, possibilista nell’idea di aumentare i dazi in nome di un’armonizzazione comunitaria e in virtù della convinzione che chi doveva “scappare” all’estero… lo ha già fatto. L’ipotesi poi di colpire i grossi speculatori, tanto amaramente popolari negli ultimi tempi, pone l’attenzione ulivista sull’eventualità di differenziazione nella tassazione dei capitali investiti.

Personalmente credo che l’Italia non abbia la necessità di subire nuovi aggravi fiscali. Aumentare il prelievo sul risparmio delle famiglie non mi pare la via maestra per recuperare danari da reinvestire nella macchina statale. Chiunque parla di lotta all’evasione e di tagli agli sprechi. Visto che i due problemi permangono, nonostante il passare dei governi, o si tratta di demagogia, oppure di incapacità . Oppure di entrambe le cose. Sarà retorica, ma se tutti pagassero le tasse e non si buttassero quotidianamente nel cestino una marea di danari pubblici, forse non ci sarebbe sempre il bisogno di affondare le mani nelle tasche del povero e “cabasiso” signor Rossi.
D’altro canto è indubitabile l’iniquità della situazione: mentre a me detraggono in automatico il 23% del mio stipendio, a Mr. Ricucci chiedono a malapena il 12,5% per il suo business (quando va bene).
Perché mai dunque uniformare l’aliquota dei redditi da capitale a quella dei redditi personali (aumentando la prima e abbassando la seconda) non potrebbe essere la soluzione ottimale?

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Il punto Cardinale

Il Cardinale Ruini, durante il consiglio della Conferenza Episcopale Italiana, ha recentemente definito le priorità della Chiesa cattolica per l’agenda politica del quinquennio entrante. Non ha espresso chiare preferenze di schieramento e neppure di partito, ha “solo” indicato quali temi stanno a cuore alla Chiesa, manifestando un’opinione sulle issues da inserire nei programmi di governo. Di fatto, però, è intervenuto nella campagna elettorale.
L’intervento è più che lecito. Mi meraviglia che la tradizione liberale dei radicali e il garantismo della sinistra più estrema non accettino l’ingerenza clericale, tacciando l’ennesimo intervento di Ruini come il tentativo di condizionare il voto. Se si accetta il principio che chiunque possa e debba manifestare un’opinione, perché mai un’istituzione come la Chiesa cattolica non dovrebbe farlo?
Il punto è un altro. O meglio altri due. Il primo riguarda l’evidente contraddizione di Ruini. Premettendo di non voler intervenire nel dibattito politico, e anzi appellandosi ad ogni platea e ad ogni attore (come chiunque ormai) per placare i toni del dibattito e della campagna elettorale, ci si aspettava da lui un coerente e logico silenzio. Se una persona non intende partecipare né essere trascinata in una disputa, cercherà innanzitutto di non entrarci.
Il secondo punto concerne il merito del pensiero espresso. Tra le altre cose, Ruini si è apertamente schierato contro le unioni di fatto, manifestando l’auspicio di un sostegno solido alla famiglia tradizionale. Si è spinto anche oltre, esprimendo la sua preoccupazione di fronte alle scelte a tutela dei pacs, promosse da alcuni consigli regionali. Se si pensa che Prodi è stato il primo candidato premier a sbilanciarsi in favore dei pacs, col beneplacito di tutto il centrosinistra (escluso lo zoccolo duro catto-ipocrita), che Lega ed An combattono da tempo battaglie in direzione opposta e che i consigli regionali citati sono tutti di amministrazioni “rosse”, è abbastanza comprensibile a chiunque che il pensiero cardinalizio ha un invito piuttosto esplicito. A ciò va aggiunto che la citazione di questi argomenti è avvenuta a discapito di altri: non si è fatta menzione ad esempio della pace nel mondo, o della tutela dei meno abbienti.
La riflessione da fare è se davvero sono quelli indicati da Ruini gli argomenti più importanti che al giorno d’oggi la Chiesa deve affrontare.

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Se anche i piccioni fanno ohh…

Di tutta la querelle di Sanremo, ho seguito poco più di dieci minuti. Per partito preso non lo guardo più da anni ormai. Così come non mi azzardo neppure a fare zapping, se so che c’è nell’aria il Grande Fratello, Buona Domenica o roba simile. Proprio per una semplice e antipatica presa di posizione, per un non so che di snob, per l’impressione di una presunta superiorità . Mi pare di abbassarmi troppo, di prendere a pugni l’etica. Non ho problemi ad ammetterlo: è un atteggiamento arrogante e altezzoso, forse anche stupido, ma è così.
Mi è capitato tuttavia di imbattermi in uno dei momenti più bassi che la televisione italiana abbia raggiunto, l’intervista a Totti. Non spenderò altre parole al proposito. Nell’articolo che precede temporalmente questo, si evince chiaramente la mia opinione riguardo al Pupone. Che lo si paghi profumatamente per farfugliare anche a Sanremo mi sembra offensivo per chicchessia, che guardi o meno la televisione. Superospiti col supercachet, che sembrano deridere i tagli alle trasmissioni culturali. Il wrestler John Cena che parla ai bambini?
Alla radio ho poi ascoltato la canzone vincente di Povia. La somiglianza con quella dell’anno precedente è fin troppo percepibile anche all’orecchio meno allenato, anche al fan più ottuso. La stessa cantilena, inno alla banalità e all’ovvietà , un insulto alla riconosciuta tradizione dei cantautori italiani.
Se dunque anche i piccioni “fanno ohh”, cioè se è sufficiente cambiare due parole ad una canzone che ha fatto successo per vincere Sanremo, mi sembra anche inutile intavolare dibattiti sulla (presunta) bellezza di Sanremo, sull’immutato fascino del Festival, sulla “missione” della canzone italiana nel mondo. Vince una canzone definita “da Zecchino d’oro” e perdiamo ancora tempo a disquisire nel merito del Festival. La verità è che siamo davvero alla frutta. Ma purtroppo in fondo non sembra esserci neppure il dolce.

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