Archive for febbraio 2006

Che cce frega der Pupone?

Dopo anni di cadute plateali ad ogni tocco e rintocco avversario, dopo campionati di tristi sceneggiate con l’ugola gemente e piangente ancor prima di subire il fallo, dopo epoche di teatrali recitazioni nel ruolo della vittima e di proteste ambientaliste in nome della salvaguardia del talento, Totti si è fatto male davvero. È capitato. È capitato che in un’anonima domenica di febbraio, una domenica di quelle fredde in cui pensi che non accada nulla, uno sconosciuto fabbro di Empoli commettesse il reato di ferire sua santità , di abbattere il simbolo di Roma e (ahiloro!) della romanità *.
Ne sono susseguite settimane di polemiche, battaglie verbali, attacchi al calcio aggressivo e appelli alla nonviolenza. Non c’è guerra o atto terroristico che in Italia abbia avuto una tale risonanza pacifista. Va bene, è stato colpito un genio del calcio, un campione. È stata trafitta l’allegoria di un calcio champagne, di un gioco geniale che va tutelato, non costretto alla cattività . Ma tutto il resto?
Ho letto domande assurde, offensive per qualsiasi intelligenza media, ingiuriose per chiunque possegga più neuroni della vittima in oggetto. Come faremo ora senza Totti, senza il suo talentuoso apporto? Come farà la Roma, priva dell’innato carisma del suo capitano? Potremo davvero partire per Germania 2006 senza di lui?
Nei ricordi di qualche lustro fa, emerge il triste addio al calcio giocato di Van Basten per motivi analoghi. Non gridai allo scandalo allora, vi pare che possa farlo oggi? La Roma continua nel suo record di vittorie consecutive, anche senza il faro luminoso e illuminante (poco illuminista) del suo capitano. Se Totti non recupererà in tempo, è probabile che andremo ugualmente in Germania a giocarci il mondiale, anche senza Pupone. Certamente perderemmo il valore aggiunto di un uomo maturo e intelligente. Perderemmo il grande simbolo che ci ha rappresentato di fronte agli occhi di tutto il mondo. Perderemmo frasi come “l’arbitro Moreno era premunito nei nostri confronti” e difficilmente riusciremmo a mostrare che siamo ancora capaci di sputare all’avversario, nell’elegante vetrina del calcio mondiale.
Rimanga pure comodo a guardarsi Ilary a Sanremo, io tanta fretta di rivederlo non ce l’ho.

*L’espressione ”simbolo di Roma e della romanità ” sarebbe eufemisticamente divertente se l’avessi coniata io. Appare invece drammaticamente triste (per i Romani almeno), dal momento che è usata dallo speaker dell’Olimpico per annunciare il nome di Francesco Totti.

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La chimera dell’Integrazione

Pochi giorni fa in Turchia, un sedicenne, armato di pistola, è entrato in chiesa uccidendo un sacerdote italiano. Ha confessato l’omicidio, giustificandolo con la profonda indignazione, scaturita dalla pubblicazione di vignette satiriche su Maometto da parte di un quotidiano danese. Per lo stesso motivo, l’episodio era stato preceduto da rivolte insanguinate nel medio-oriente. Poi diverse decine di morti in Libia, in Nigeria, un po’ in tutta l’Africa. Sono questi gli ultimi atti, in ordine di tempo, della guerra radicale islamica nei confronti dell’occidente cristiano.
Il problema non è se la satira contro la religione, quand’anche sfoci nell’abisso del vilipendio, possa o meno giustificare la violenza, o meglio, l’omicidio. Giacché la tesi da sostenere non potrebbe essere che una sola. La questione è piuttosto se sia ancora possibile sostenere la cultura islamica come ricchezza per il mondo occidentale. Se sia ancora possibile vedere l’Islam come opportunità e non come minaccia. La cultura xenofoba, nel senso più letterale del termine (ovvero l’avversione agli stranieri) e la difesa della particolarità , dei propri usi e dei propri costumi, hanno sempre incontrato in Italia l’antitesi di chi sosteneva che l’Islam potesse rappresentare un patrimonio culturale, un’occasione di confronto per la tradizione cristiano-occidentale: aprire le porte, aprire la mente; accogliere non in nome della carità , ma del progresso.
Ma di fronte all’intransigenza e all’estremismo arabo, per carità pilotato a dovere da chi ha ancora il potere di plagiare le folle inerti, ha ancora un senso parlare di opportunità ? Di fronte ad una mancanza totale di disponibilità al dialogo e di accettazione delle regole comuni, ha ancora un senso parlare di Integrazione (con al I maiuscola)?
Non sto parlando dei doveri di carità ed accoglienza che ciascun individuo, prima ancora che lo Stato, dovrebbe espletare. Sto parlando di Integrazione. Quel fenomeno che unisce e fonde, al fine ultimo di completare. Noi ne abbiamo davvero bisogno? E loro lo vogliono realmente?

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Il vizio di forma della Lega

La Lega ha avuto l’indubbio merito storico di fare da madrina ad un importante processo di cambiamento che ha spinto l’Italia attraverso gli anni bui di tangentopoli fino alla seconda repubblica e all’apogeo del maggioritario. Non sono tutte vittorie dirette della Lega. Anzi, per la verità quasi nessuna. Tuttavia è incontestabile che i malcontenti di fine anni 80, ovvero le contestazioni ad una classe politica che non solo era sempre più “inquinata” e corrotta, ma che non poteva più garantire il benessere degli anni passati, insieme alla fine delle ideologie, che poneva termine allo schieramento aprioristico per un partito piuttosto che per un altro, furono polarizzati ed espressi dalla neonata (quindi candida, perché chi non ha passato non può avere fedina penale sporca) Lega Lombarda. Le alte percentuali di voto della Lega di quegli anni non sono riconducibili solo al malcontento dei cittadini settentrionali nei confronti del parassitismo meridionale e del centralismo romano. Sono piuttosto l’espressione, come spesso avviene in questi casi, di una fiducia incondizionata nell’unico soggetto che può rappresentare un taglio radicale col passato. Questo più o meno il ragionamento comune: poiché tutti gli altri alla fine sono uguali, mi fido solo di chi, sulla carta, appare diverso.
La Lega, dunque, ha avuto il merito storico di capeggiare e riunire il malcontento comune, impedendo che lo stesso si esaurisse e che il vecchio sistema si autorigenerasse in un inscardinabile circolo vizioso.
La fiducia degli elettori è sempre scaturita dall’impressione che nella Lega si convogliasse la protesta generale ad un sistema marcio, l’antagonismo ai mali congeniti del sistema, l’antisistema. Lo stesso Bossi, all’epoca, si presentava come uomo di rottura: l’uomo del popolo, l’uomo medio che da governato diventa governante, senza mai diventare politico. I toni accesi e tutt’altro che moral-populisti, diametralmente opposti al buonismo e alla demagogia imperante, hanno prodotto voti, fino a trascinare gli uomini leghisti nelle alleanze di governo. Da movimento extraparlamentare, tra alterne fortune e cangianti vicende, la Lega è entrata in parlamento ed è assisa infine ai banchi dell’esecutivo. Ed è a questo punto della sua storia che ha dovuto fare i conti con il proprio successo.
Non tratterò qui le ideologie leghiste, i paradossi e i limiti che le compongono e nemmeno la liceità e la correttezza delle loro ragioni incipienti o delle cause che ne stanno alla base. Dirò solo che condivido poco o nulla del suo pensiero e ancor meno dei suoi metodi. È però interessante riflettere sulla capacità di gestire il successo (che significa gestire il potere) da parte della sua classe dirigente. L’impressione è che la nomenklatura del Carroccio, abilissima nel contestare il sistema, nel fare opposizione, nel manifestare e discutere ogni errore e limite dello status quo, non sia altrettanto preparata per ricoprire incarichi di vertice, istituzionali. Altre forze politiche votate geneticamente all’opposizione sono incapaci di proporre e attuare la riforma di quanto contestano, proprio per loro definizione e vocazione. Si pensi a Rifondazione, ad esempio. Ma oltre a questo limite di sostanza, la Lega ne mostra anche uno di forma, ovvero sembra incapace, per propria natura, di ricoprire qualsiasi ruolo istituzionale. Le gaffe di Calderoli, le parole di Borghezio sembrano denunciare più un’incapacità di svolgere un ruolo, che una volontà a polemizzare. L’uomo della Lega non sa parlare da politico, non sa agire da statista, non sa operare da diplomatico. Sa urlare il suo malcontento, ma non sa sussurrare la sua soluzione.
L’episodio di Calderoli fotografa in maniera cristallina il concetto. Il tentativo di strumentalizzare l’episodio internazionale delle vignette su Maometto, al fine di ribadire il sostegno a chi osteggia il pericolo Islam, è naufragato tristemente. E anche la giustificazioni di aver agito da uomo e non da politico fa acqua da tutte le parti. Il vero politico non può mai disgiungersi dal suo ruolo istituzionale, né dimenticarsi dell’incarico che copre. Se non è capace di curare la forma che l’istituzione richiede, allora torni a fare l’uomo comune.

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Il gioco dei programmi

Apprendo dal tg delle 20.00 che la Casa delle Libertà ha presentato un programma per la nuova legislatura. Dieci punti chiari e definiti, che riprendono una linea politica già tracciata e che mirano a completare un epocale riforma del sistema, da poco avviata. Pensioni, tasse… Non ho letto i singoli punti, ma potrei elencarli con una margine d’errore davvero risicato.
Sappiamo benissimo che si tratta del noto e banale “populismo delle promesse”. Chiunque può rendersi conto che tra il “Contratto con gli Italiani” (alias la promessa) e le leggi del governo uscente (alias i fatti) non solo non vi è riscontro alcuno, ma non vi è neppure differenza; giacché la differenza è possibile solo tra termini paragonabili.Una tattica pre-elettorale vecchia e logora. Una tattica che tuttavia rischia di essere vincente. Non nel senso che farà vincere Berlusconi, per il quale ho già annunciato la sconfitta, ma nel senso che renderà all’Unione una vittoria mutilata, una vittoria magra. È infatti indubitabile che la CdL sappia comunicare. Il messaggio schematico, facile, accessibile e comprensibile dei dieci punti raggiungerà ogni elettore. Solo i più avveduti sapranno filtrare col setaccio della ragione, distinguendo la demagogia dalla realtà . Per tutti comunque il messaggio resterà chiaro. Magari pochi ci crederanno, ma resterà certamente chiaro e definito. Ed a questo gioco del programma polista (ma forse sarebbe meglio dire “polare”) concorre anche il Centrosinistra. Mentre da una parte si sfoderano “le dieci carte che cambieranno l’Italia”, dall’altra si discute sterilmente sulla necessità del Tav. Non che il dibattito che vede Prodi e Fassino contro Bertinotti e Pecoraro Scanio non sia legittimo. Che una coalizione si confronti e discuta da posizioni differenti su argomenti di questa stregua è più che lecito. Il problema sta nel farlo in campagna elettorale. All’elettore non arriverà il messaggio di una coalizione che discute, ma quello di un’accozzaglia che si divide anche sul più uniforme degli argomenti. Il programma dell’Unione c’è e c’è da tempo. Ma il cittadino comune ne ha l’effettiva percezione?
In definitiva non discuto la sostanza dei due programmi e neppure quella delle due coalizioni. Discuto la diversa capacità di comunicare e la differente efficacia dei messaggi.
In fondo le vittorie elettorali (e le sconfitte) nascono anche da qui.

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Il populismo che si ripete

Con l’aiuto di Gianluca ho rubato dal blog di Beppe Grillo una preziosa citazione sul populismo. E’ un brano di qualche anno fa, ma in tempo di campagna elettorale mi è parso semplicemente attuale. Non trovo termine migliore per definirne il valore di questa analisi. È mia opinione che si possa qualunquisticamente applicare ad ogni governo e ad ogni opposizione.
Leggendolo, pensate a chi può averlo scritto. In fondo (non barate) ho messo l’autore.

Una sola preoccupazione spinge a costruire programmi nuovi o a modificare quelli che già esistono: la preoccupazione dell’esito delle prossime elezioni. Non appena nella testa di questi giullari del parlamentarismo balena il sospetto che l’amato popolo voglia ribellarsi e sgusciare dalle stanghe del vecchio carro del partito, essi danno una mano di vernice al timone. Allora vengono gli astronomi e gli astrologhi del partito, i cosiddetti esperti e competenti, per lo più vecchi parlamentari che, ricchi di esperienze politiche, rammentano casi analoghi in cui la massa finì col perdere la pazienza, e che sentono avvicinarsi di nuovo una minaccia dello stesso genere. E costoro ricorrono alle vecchie ricette, formano una “commissione”, spiegano gli umori del buon popolo, scrutano gli articoli dei giornali e fiutano gli umori delle masse per conoscere che cosa queste vogliano e sperino, e di che cosa abbiano orrore. Ogni gruppo professionale, e perfino ogni ceto d’impiegati viene esattamente studiato, e ne sono indagati i più segreti desideri.

Le commissioni si adunano e rivedono il vecchio programma e ne foggiano le loro convinzioni come il soldato al campo cambia la camicia quando quella vecchia è piena di pidocchi. Nel nuovo programma, è dato a ciascuno il suo. Al contadino la protezione della agricoltura, all’industria quella dei suoi prodotti; il consumatore ottiene la difesa dei suoi acquisti, agli insegnanti vengono aumentati gli stipendi, ai funzionari le pensioni. Lo Stato provvederà generosamente alle vedove e agli orfani, il commercio sarà favorito, le tariffe dei trasporti saranno ribassate, e le imposte, se non verranno abolite, saranno però ridotte.
Talvolta avviene che un ceto di cittadini sia dimenticato o che non si faccia luogo ad una diffusa esigenza popolare. Allora si inserisce in gran fretta nel programma ciò che ancora vi trova posto, fin da quando si possa con buona coscienza sperare di avere colmato l’esercito dei piccoli borghesi e delle rispettive mogli, e di vederlo soddisfatto. Così, bene armati e confidando nel buon Dio e nella incrollabile stupidità degli elettori, si può iniziare la lotta per la riforma dello Stato.
Ogni mattina, il signor rappresentante del popolo si reca alla sede del Parlamento; se non vi entra, almeno si porta fino all’anticamera dove è esposto l’elenco dei presenti. Ivi, pieno di zelo per il servizio della nazione, iscrive il suo nome e, per questi continui debilitanti sforzi, riceve in compenso un ben guadagnato indennizzo.

Dopo quattro anni, o nelle settimane critiche in cui si fa sempre più vicino lo scioglimento della Camera, una spinta irresistibile invade questi signori. Come la larva non può far altro che trasformarsi in maggiolino, così questi bruchi parlamentari lasciano la grande serra comune ed, alati, svolazzano fuori, verso il caro popolo.
Di nuovo parlano agli elettori, raccontano dell’enorme lavoro compiuto e della perfida ostinazione degli altri; ma la massa ignorante, talvolta invece di applaudire li copre di parole grossolane, getta loro in faccia grida di odio. Se l’ingratitudine del popolo raggiunge un certo grado, c’è un solo rimedio: bisogna rimettere a nuovo lo splendore del partito, migliorare il programma; la commissione, rinnovata, ritorna in vita e l’imbroglio ricomincia. Data la granitica stupidità della nostra umanità , non c’è da meravigliarsi dell’esito. Guidato dalla sua stampa e abbagliato dal nuovo adescante programma, l’armento proletario e quello borghese ritornano alla stalla comune ed eleggono i loro vecchi ingannatori.
Con ciò, l’uomo del popolo, il candidato dei ceti produttivi, si trasforma un’altra volta nel bruco parlamentare e di nuovo si nutre delle foglie dell’albero statale per mutarsi, dopo altri quattro anni, nella variopinta farfalla
“.

dal Mein Kampf di Adolf Hitler. Curioso, eh?

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La contraddizione dei no-global

Alle volte mi chiedo dove sia finito il popolo di Seattle. Più “in piccolo”, mi chiedo dove sia finita la sua falange italiana. Dove sono finiti i no global che manifestavano al G8 di Genova, quelli che confondevano Green Peace con la lotta alla Nike, la pace in Iraq con l’attacco alla Coca Cola. Quelli che osteggiavano, a ragione, la globalizzazione straripante delle multinazionali, ma dimenticavano lo straripamento globale dell’economia cinese.
L’impressione è che sotto l’egida di valori autentici e condivisibili (la lotta ai crimini delle multinazionali, appunto) si celi una strumentalizzazione politica. L’utilizzo di uno scudo che rimanda a valori nobili, per combattere qualsiasi battaglia. Anche la più assurda. L’esempio del movimento pacifista è paradigmatico ed emblematico. Merita una trattazione a parte, ma la sola sua citazione rende l’idea di quanto intendo sostenere.
Sergio Romano dalle pagine del Corriere asserisce che la battaglia di questo movimento no-global sui veri temi della globalizzazione sia venuta smorzandosi per l’attenuazione del sostegno ideale dei paesi in via di sviluppo. In sostanza, poiché anche a Cina, India e Brasile farebbe comodo la globalizzazione dei sistemi economici, allora anche i paladini dell’antiglobalizzazione avrebbero abbassato le loro spade. Ma io non concordo. Credo che l’affievolirsi di questa protesta risieda in ragioni più sostanziali. Credo, e mi ripeto, che il cavallo chiamato no-global fosse prima, e sia ora, solo un mezzo per percorrere le più disparate contestazioni.

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La vera amicizia nasce dalla giovinezza condivisa?

Ecco uno spunto interessante sul tema dell’amicizia

“Cesare era una brava persona, una creatura affettuosa e comprensiva che lo stimava e che gli voleva bene, ma non si poteva veramente considerare un amico. Si erano conosciuti troppo tardi, quando entrambi erano già uomini fatti. Per questo ciò che li univa era un rapporto di colleganza, di simpatia, di consentaneità . Ma non bastava. Avevano sì in comune molte cose, ma non la gioventù. E non ci poteva essere vera amicizia senza una giovinezza condivisa perché niente poteva surrogarne il ricordo. L’amicizia è un dato esistenziale, si diceva Andrea. Non un’affinità elettiva, non una scelta deliberata, non il piacere della conversazione, non un invito a cena. A due esseri umani è dato, per puro caso, di nascere in uno stesso angolo di mondo, di frequentare la medesima scuola, di inciampare uno nell’altro e di fare un pezzo di strada assieme prima che la chimica ormonale completi i propri esperimenti con il corpo puberale. Ed eccoli testimoni uno dell’altro per il resto dei loro giorni. Tutto qui il senso inesauribile di quella parola: amicizia. Nient’altro che la collisione accidentale tra due atomi umani. Ma un cozzo provocato da una deviazione avvenuta nel primo tratto della corsa verso la morte di quei due atomi, quando ancora l’accelerazione non ha impresso troppa velocità al loro precipitare, quando ancora la forza che attrae verso il basso un corpo in caduta libera non si è fatta troppo grave da sostenere, quando ancora non siamo del tutto risucchiati dalla prossimità dello schianto.
Un urto casuale tra due punti di materia cieca, stornati per un istante dal loro precipitare a piombo. Ecco il sodalizio umano. Due bocconi di creta sanguinolenta e ancora molle che imprimono l’uno il proprio insensato sigillo nell’altro. Per questo l’amicizia era eterna, irrevocabile. Perché era una cosa completamente gratuita, priva della benché minima ragione, se non quella del semplice fatto di essere accaduta quando ancora qualcosa poteva assumere il prestigio assoluto dell’evento.
Vale a dire prima dei vent’anni.
No, non poteva dirsi amicizia dopo quell’età , si ripeté Andrea.
Cesare non era veramente suo amico. Avevano in comune molte cose, le idee politiche, la professione e il modo di intenderla, forse perfino un certo angolo visuale sul mondo, ma non la gioventù.”

(da “Il sopravvissuto” di Antonio Scurati, fornitomi dal Lele)

Non ci può essere vera amicizia senza giovinezza condivisa, poiché niente può surrogare il ricordo. Questa affermazione è il cuore di tutto il brano.
Possono nascere grandi amicizie anche senza esperienze di giovinezza condivisa. È tuttavia indubbio il fatto che le condivisioni giovanili aiutano. E aiutano molto. Il crescere vicini, partecipando attivamente e reciprocamente alla formazione di chi ci sta accanto, è un elemento che getta fondamenta massicce per un amicizia solida. La condivisione delle esperienze, che poi diventano ricordo, è fondamentale per saldare i legami di un rapporto e per incollare alla perfezione i tasselli di un mosaico complicato qual è l’amicizia.
A questo proposito mi piacerebbe conoscere il vostro parere.

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La strategia del Cavaliere

Silvio Berlusconi sa che perderà le elezioni. Non le perderà perché il programma dell’Unione è più concreto, più attuabile o migliore rispetto a quello della CdL, e neppure perché gli uomini di Prodi sono più carismatici dei suoi. Le perderà semplicemente perché ha governato male. Non solo non ha saputo dare quanto aveva promesso, ma neppure è riuscito a convincere di averlo dato. I segnali della sua caduta, prima ancora che nelle consultazioni amministrative post 2001, si trovano nella sua azione di governo. La stessa ragione che lo ha spinto a scendere in politica, ora lo boccerà . Sarà infatti il peccato di aver cercato con accanimento e priorità la difesa dei suoi interessi a scalzarlo dalla sedia che si era accuratamente costruito. Perderà per sua stessa mano, non per merito o valore dell’avversario.
Gli rimane una sola, ultima possibilità . Quella di perdere ai punti. Con la reintroduzione del proporzionale (argomento che non approfondisco perché meriterebbe una trattazione a parte) il suo obiettivo è quello di “perdere, ma per poco”. Col fine ultimo di rigiocarsi una nuova partita dopo che la nuova maggioranza, risicata (per la nuova legge elettorale) e frammentata (per natura), si disintegrerà in uno scontato, e già visto, processo di autodistruzione.
È in quest’ottica che si spiegano le sue continue apparizioni televisive e mediatiche in genere. “Non importa come se ne parla, purché se ne parli”. Berlusconi sta tentando di entrare di prepotenza negli argomenti dei suoi avversari e degli italiani. Questa è la sua tattica. Così semplice e quindi così efficace. Sono settimane che l’opposizione non fa che parlare della sua prepotenza televisiva e della sua occupazione “abusiva” degli spazi di comunicazione. Non si conosce nulla dei programmi degli schieramenti, nulla dei candidati. Non sappiamo cosa la CdL ammetta essere stato aberrante, e quanto giusto, della sua legislatura. Non sappiamo cosa in concreto farà l’Unione. Sappiamo solo che tutti, ed evidentemente faccio anch’io pubblica ammenda, parlano di Berlusconi. È dunque oggettivo il vantaggio di questa tattica. Non paga gli altri candidati della CdL, sempre meno visibili agli occhi degli italiani. Non possono raccontare quanto di buono (secondo loro) hanno realizzato, perché il focus è solo sul premier. E non avvantaggia di certo il centrosinistra, che anziché impegnare tempo e risorse per farsi capire e per spiegare quanto farà , insiste nel demonizzare lo strapotere del cavaliere. In questo modo tutti fanno il suo gioco.
Provino tutti quanti, almeno per una volta, una soltanto, a prestargli meno attenzione. Vorrei tanto sapere se esiste un centrodestra senza di lui, o un centrosinistra senza la paura del demonio.

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