Archive for maggio 2006

Campanilismo a tavola

I Capunsèi, piatto tipico della tradizione popolare voltese, sono stati inseriti nella lista delle peculiarità agroalimentari della Regione Lombardia. Il nostro piatto-simbolo, sintesi di una cucina povera e di una storia contadina secolare, ottiene dunque una sorta di “protezione” e riconoscimento, entrando di diritto nella lista dei migliori prodotti da preservare e difendere, al fianco dei Tortelli di zucca e alla Sbrisolona.
Ho sempre creduto nel valore della tradizione popolare, nel folclore dei natali, nella suggestione e nella ricchezza del nostro passato ancestrale. Accolgo pertanto con sublime piacere la decisione di inserire i Capunsèi tra le etichette ufficiali della gastronomia del territorio da tutelare.
Non ho accolto con identico favore ed entusiasmo l’attribuzione della zona di provenienza dichiarata dalla Gazzetta Ufficiale della Regione. Si certifica che i Capunsèi provengono dai Colli Morenici del Garda, anche se origine e produzione non valicano il territorio di Volta. Provate a chiedere i Capunsèi a Castiglione o a Ponti.
Perché dunque, se si assegna la Torta di S. Biagio a  Cavriana ed il Salame mantovano alla sola città di Mantova, non si può dire che i Capunsèi sono di Volta?

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Onorevole, mi permetta…

Chiamato in causa sull’argomento “Italia dei Valori” e sul ruolo di Di Pietro, ho inserito un commento sul blog dell’onorevole ed ho mandato una e-mail al suo indirizzo personale di posta elettronica. Questo il mio rimprovero integrale.

Onorevole Di Pietro,
persone a me care, che l’hanno sostenuta affidandole i loro voti, mi hanno introdotto a questo blog. Ammiro la sua iniziativa e le riconosco l’attenzione per la comunicazione verso il cittadino, dote rara nella classe politica italiana. Come avrà modo di intendere, non sono tra quelli che hanno votato il suo partito. Rispetto agli autori degli interventi contenuti in questo spazio, mi divide dunque quel concetto di “mandato”, tanto decantato. Mi uniscono tuttavia il disgusto e la delusione, per un governo neonato che sembra disattendere ogni promessa fin dai suoi primi passi. Le riassumo i motivi che danno origine alla mia (e a quanto vedo non solo “mia”) collera.
1- Lei ha fatto una campagna elettorale improntata quasi esclusivamente sui temi della giustizia. Ha attaccato gli scempi del governo precedente, partendo dall’anomalo rapporto dell’ex premier con i tribunali e terminando con la necessità di “fare giustizia”. Ha biasimato condoni e indulti, ergendoli a bandiera contro la quale lottare. L’elettore medio che le ha conferito mandato, lo ha fatto unicamente per un desiderio di giustizia che lei sembrava incarnare. Lo ha fatto nella speranza che potesse occuparsi direttamente dell’unica questione, la Giustizia appunto, della quale si intende. Ha sperato che sulla poltrona del dopo Castelli potesse sedere un esperto di ruolo. Oggi l’elettore si ritrova con Mastella alla Giustizia e Di Pietro alle Infrastrutture (come se Pecorario Scanio andasse alla Difesa, per dire). I casi sono due: o lei non vale niente ed è incapace di negoziare (ma allora perché mai gli elettori dovrebbero sostenerla?), oppure la sua campagna elettorale era “falsa” e la sua necessità era quella della poltrona qualsiasi.
2- Non perde occasione di argomentare la sua lealtà a Romano Prodi, anche di fronte a scelte poco condivisibili. Mi chiedo: se non condivide le scelte di Prodi, perché non dargli un appoggio esterno, invece di piegare continuamente la schiena evitando di mostrare qualche volta i pugni sul tavolo? Non sarebbe eticamente più corretto?
3- Un teatrino per decidere poltrone ed incarichi. Ma scusi, su che cosa vi eravate accordati prima del voto? Non sulle cariche istituzionali, non sui ministeri. Su che cosa? Sul programma? E allora perché, ad esempio, Bertinotti vuole partire dall’amnistia e lei no? Possibile che non vi accorgiate che ci sono questioni più importanti da affrontare. Alzi la voce!
4- Tanta retorica per dare “più spazio alle donne”. Sarebbe questa l’azione che segue all’idea? Sei donne su venticinque ministeri, di cui cinque senza portafoglio? Lo capite che la gente misura la vostra credibilità anche da questi segnali?
Se queste sono le premesse, le faccio tanti auguri. Ne ha bisogno. Non sono onorevole come lei, ma sono ospitale. Dopo aver giocato in trasferta la invito sul mio blog, più semplice e scarno del suo, ma sicuramente meno contraddittorio (www.silviobau.it). So che non ci verrà. Ma a breve sono convinto che avrà tanto, tanto tempo libero. E se tra qualche mese non saprà cosa fare… io l’aspetto.

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Prodi e i suoi prodi: governo nuovo o governo vecchio?

Ho atteso l’elenco della squadra di governo, come il cliente medio del bar sport attende i convocati di Lippi.
In realtà attendevo un vento ed uno spirito nuovi. So che ogni maggioranza “governanda” promette cambiamenti drastici, rivoluzioni efficaci e migliorie radicali. Ed a causa di questa prassi istituzionale, non mi ero minimamente illuso. Tuttavia la critica ad oltranza che il centrosinistra ha fatto dell’era Berlusconi, mi aveva lasciato sperare che “Prodi e i suoi prodi” non potessero che invertire la rotta. Criticare il sistema, scardinarlo e proporne uno diverso. La logica appare disarmante nella sua semplicità e chiarezza.
Ad un solo giorno dall’investitura ufficiale del premier, resto sconcertato dalla lista dei neo (nel senso di inquietanti punti neri) ministri.
Avrei voluto un ruolo di primissimo piano per Emma Bonino, persona capace, non corruttibile e di riconosciuta professionalità. La ritrovo col contentino di un ministero senza portafoglio. Avrei voluto un luminare al Ministero dei Beni Culturali: mi ritrovo con la caricatura di Alberto Sordi (Rutelli). Avrei considerato naturale l’avvento di Di Pietro alla Giustizia: scopro che i titoli di Mastella in materia valgono molto più di Tonino. Tanti proclami sullo spazio da dedicare alle donne: solo Livia Turco ha un ministero con portafoglio. E poi Parisi alla Difesa?
Mi compiaccio per Padoa Schioppa e per Bersani, persone di indubbio valore e sono convinto che D’Alema agli Esteri potrà fare bene. Per il resto devo affidarmi al fatto che i nomi sconosciuti costituiscano una speranza di piacevole sorpresa, più che un sospetto di poltrone ben spartite.
È aumentato anche il numero dei dicasteri, in perfetto stile “prima Repubblica”. Aspettavo un governo nuovo, ma le premesse mi paiono abbastanza vecchie.

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I furbetti del campetto

Convocati i 23 azzurri che prenderanno parte al mondiale.
Un portiere marcato a vista dalla magistratura, un ct che deve fornire delle risposte chiare agli inquirenti e un presidente federale appena dimesso. Dall’altra parte il resto degli italiani, l’Europa, il mondo intero. Tutti chiacchierano sul nostro campionato, sul nostro calcio. Discutono di moralità e di etica, di professionalità e di onestà. Al centro noi altri, italiani per bene e italiani meno per bene.
Ci presenteremo nella vetrina del calcio mondiale con la taccia della mafia all’italiana, con l’etichetta dei furbetti del campetto. Nella specialità che ci ha sempre visto protagonisti, in uno dei pochi ambiti dove da sempre lottiamo per primeggiare, oggi partecipiamo da battitori liberi, da giocatori indipendenti; perché agli occhi del mondo non siamo più sportivi, anche nella competizione agonistica siamo diventati un popolo di furbi. Il nostro mondiale è segnato, segue una linea a parte. Sarà in ogni caso una partecipazione con la macchia, con la “F” di Furbetti ben ricamata sulle magliette.
Anche di questo dovranno rispondere tutti i mestieranti del pallone. Dopo averci trascinati nel fango, dovranno dirci come ci si rialza e soprattutto come ci si ripulisce. Aspettiamo delle risposte.
Nel frattempo i campioni della nazionale sanno che in caso di vittoria riceveranno una ricompensa di 250 mila euro a testa. Una volta indossare la maglia della nazionale era già di per sé un premio, un onore. Ma i tempi, si sa, cambiano.

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Re Giorgio

Sient a mme nun ce sta nient a ffa, okkay Napulità
(Renato Carosone, Tu vo’ fa l’americano)

Dopo quattro votazioni, con la maggioranza assoluta di 543 voti su 990 presenti, Giorgio Napolitano è assurto alla carica di Capo dello Stato. La vicenda ha appassionato l’Italia come la nomination di un reality. Non per un innato senso dello stato che coinvolge e permea ogni anfratto della società italiana, quanto piuttosto per uno strano senso della suspense che ci porta morbosamente a mangiarci le unghie, ogni volta che siamo in attesa di conoscere l’epilogo di qualsiasi evento somministratoci dai media. Si sostiene da più parti che l’attesa per il foto finish sia alquanto esagerata. In definitiva i poteri effettivi del Presidente della Repubblica sono piuttosto marginali, rispetto magari al Presidente del Consiglio o confrontati a quelli del Capo dello Stato di un’altra nazione (si pensi alla Francia). Compiti principali che attendono Napolitano sono la rappresentanza ufficiale della nazione, lo scioglimento delle Camere (previa consultazione), la nomina formale del Presidente del Consiglio, la possibilità di rinviare alle Camere le leggi approvate, la nomina dei senatori a vita, la presidenza delle riunioni del CSM, la nomina di un terzo dei giudici della Corte Costituzionale, il comando delle Forze Armate, la presidenza del Consiglio supremo di difesa, la possibilità di concedere la grazia e di commutare le pene, il conferimento delle onorificenze. Altre attribuzioni sono poco più che ornamentali, dunque in definitiva il suo ruolo non parrebbe così delicato…
Tuttavia l’importanza dell’incarico è di ben altra natura. Non scaturisce infatti da poteri circoscritti e tangibili, ma da una serie di prerogative personali. Innanzitutto il Capo dello Stato deve rappresentare tutta la società civile, nel senso che deve riassumere i valori maggiormente condivisi. Se esso è sunto, specchio e summa di tutto il popolo, avrà certamente un ascendente sulle scelte di Parlamento e Governo. Fungerà da monito e garante per gli indirizzi governativi, nonché da credibile e ricercato consigliere. Pensiamo al rispetto che suscitava Ciampi quando esprimeva un’opinione. Governo e opposizione non hanno mai manifestato dissenso alle sue affermazioni. Paragoniamolo a Scalfaro o Cossiga, biasimati e strumentalizzati in ogni occasione possibile. Un Presidente della Repubblica forte, il cui vigore, come detto, sgorga dalla sua biografia personale e conseguentemente dall’appeal e dalla condivisione da parte del popolo e dell’opinione pubblica, potrà garantire la salvaguardia di principi e valori fondamentali (costituzione), nonché condizionare molte scelte politiche dell’esecutivo. Un presidente “amato” difende la Repubblica e infonde fiducia a chi la amministra. Se non altro per semplice scelta di opportunità, il Governo non potrà mai contraddire un Capo dello Stato benvoluto e sostenuto da tutta la nazione.
È dunque per questa semplice ragione che la scelta di un uomo altamente rappresentativo appare fondamentale: perché dal suo tasso di gradimento deriva la sua forza. Per la stessa ragione non poteva essere scelto D’Alema. Opinabile è la sua statura istituzionale, ma indiscutibile è la sua appartenenza ad una precisa e definita parte politica. Troppo compromesso, insomma, per essere super partes.
Entrambe le coalizioni hanno sbagliato il metodo d’approccio alla questione. Il centrosinistra doveva proporre una rosa di nomi, ma ufficialmente ha candidato e si è autovotato un solo candidato: il suo. Dopo anni a predicare la condivisione e la concertazione, ha perso la prima, importante occasione di razzolare bene. Si è scelto il candidato e lo ha eletto con la forza dei numeri, infischiandosene della metà degli italiani che ha votato dall’altra parte. Sull’Ulivo pende anche l’ombra di una mirata spartizione delle poltrone tra i principali partiti componenti. Nulla di nuovo, se questo non stridesse ruvidamente con i retorici principi sventolati con arroganza, da chi si è sempre sentito depositario assoluto del bene.
Il centrodestra ha sbagliato a non sostenere Napolitano. Si poteva eleggerlo al primo giro, impalmandolo “presidente di tutti”. Invece no.
L’uomo e il suo profilo non si discutono, Napolitano va benissimo. Sono sindacabili le pappocce, fatte da entrambe le parti, inutili e facilmente evitabili con l’uso di misurato buonsenso.
Personalmente avrei preferito una personalità più affrancata come Mario Monti, ma sono soddisfatto dell’esito. “Okkay Napulità”, dunque. Certamente meglio lui, di gentaglia come Amato o Dini.

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Sua culpa, sua maxima culpa

Ah che rovina! Sì il mio regno è finito. Mi si toglie il potere, mi si umilia, mi si scaccia! In un giorno, un giorno solo, perdere tutto… La cosa è segreta per ora: non una parola
(Victor Hugo, Ruy Blas)

In questi giorni tiene banco la vicenda Moggi. Lascia perplessi la linea qualunquista del “ma tanto si sapeva”. È vero: si sapeva. Lo strapotere italiano della Juventus, il condizionamento arbitrale, la gestione del calciomercato da parte della Gea sono cose assodate e ormai fisiologicmente accettate. Tuttavia il fatto che ora le impressioni, i dubbi, i sospetti appaiano supportati da elementi concreti e tangibili aggrava la situazione. E non di poco. Potrei ricamare parole eleganti sul calcio malato, che peggiora ogni giorno, che non guarisce mai. Ma non ne ho voglia.
Ora chi ha sbagliato paghi. Pagò Paolo Rossi per lo scandalo scommesse, pagò Pantani per il doping. Pagò il Milan, andando due volte in serie B e molti altri hanno perso carriere e reputazioni. Solo una ventata di giustizialismo potrà schiarire un po’ il panorama.
“Sono tutti uguali”, si sente dire. Sarà… Intanto si punisca chi è colpevole. Se altri si aggiungeranno, ben venga per loro la stessa fine. Non se né può più di lobby, clientele, insabbiamenti e false condanne.

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Vicenda Moussaoui, non vincitori ma vinti

Zacarias Moussaoui, protagonista reo confesso dell’attentato dell’11 settembre ed unico superstite del commando operativo, è stato condannato all’ergastolo dal tribunale della Virginia. Uscendo dall’aula ha dichiarato “America, hai perso”. È vero: l’America ha perso la sua battaglia al terrorismo, ha perso una guerra stupida, ha perso l’occasione di non mostrarsi paese tiranno, ha perso due torri e migliaia di vite umane. E forse molto altro ancora.
Ma Moussaoui non è riuscito a portare a termine la sua parte di efferato crimine. È stato arrestato. Non ha ottenuto una platea d’opinione pubblica da arringare con i suoi proclami, neppure una particolare attenzione da parte dei media. Non ha avuto la pena di morte, quindi neppure la soddisfazione del martirio per la causa islamica, né tantomeno la possibilità che gli Stati Uniti venissero tacciati di crudele, efferata vendetta. Ora trascorrerà la vita in carcere. Alla fin fine nemmeno lui ha vinto.

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La tragedia è il condono

Ischia, quattro morti in una frana. Si scopre già dalle prime indagini che tra le concause dello smottamento vi è l’errata o eccessiva cementificazione del versante crollato. Abuso edilizio si dirà poco dopo. Oltre diecimila domande di condono all’interno della sola isola.
Ma se non c’è controllo sulle concessioni e sugli abusi in luoghi come Ischia, dove altro dovrebbe esserci? Se non si tutelano i “paradisi” ambientali, quali altri territori pensiamo di salvaguardare? La tragedia che ha coinvolto le quattro vittime e le loro famiglie è terribile, ma ancor più terribile è lo scempio del territorio, perché coinvolge un numero infinitamente più grande di individui. E perpetrare nelle politiche del condono, figlie di una cultura criminale, è, se possibile, ancor più tragico.

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