Archive for settembre 2006

Ciao Lele

Ti ringrazio Lele, perché mi hai insegnato che l’amicizia non vuole gesti eclatanti, ma ha bisogno piuttosto delle piccole cose della vita. L’amicizia è come un fiore che va coltivato giorno per giorno, con piccole dosi di affetto quotidiane, con l’equilibrio e la misura che appartengono solo ai giardinieri più bravi. Un fiore, per crescere e creare un seme, ha bisogno di acqua tutti i giorni, non di temporali. Ha bisogno di luce tenue e continua, non di un fuoco che lo bruci. E così è l’amicizia.
Ti ringrazio Lele, perché mi hai insegnato il valore dell’ospitalità. Mi hai insegnato che per stare vicini non serve alcuna occasione, alcuna scusa. “Ci troviamo da me” era il tuo modo per chiamarmi “amico”.
Ti ringrazio Lele, perché mi hai insegnato che l’allegria salverà il mondo. Mi hai insegnato che non si può perdere l’allegria, che l’allegria dimostra che l’uomo è un essere pensante.

Scrive Paulo Coelho che “il Guerriero della Luce non ha bisogno che qualcuno gli rammenti l’aiuto degli altri: se ne ricorda da solo, e divide con loro la ricompensa”.
Adesso, che sei lassù, per favore, aiutaci e spiegaci perché può accadere tutto questo.
Noi da soli non riusciamo a capirlo.

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Verba volant

Le mie parole sono sassi, precisi, aguzzi,
pronti da scagliare su facce vulnerabili e indifese.
Sono nuvole sospese, gonfie di sottointesi,
che accendono negli occhi infinite attese.
Sono gocce preziose indimenticate, a lungo spasimate, poi centellinate.
Sono frecce infuocate che il vento e la fortuna sanno indirizzare.
Sono lampi dentro un pozzo, cupo e abbandonato,
un viso sordo e muto che l’amore ha illuminato.
Sono foglie cadute, promesse dovute,
che il tempo ti perdoni per averle pronunciate.
Sono note stonate, sul foglio capitate per sbaglio, tracciate e poi dimenticate.
Le parole che ho detto, oppure ho creduto di dire, lo ammetto…
Strette tra i denti, passate, ricorrenti inaspettate, sentite o sognate…

(Le mie parole – Samuele Bersani)

Proprio oggi due persone, senza conoscersi neppure lontanamente e muovendo le loro argomentazioni da situazioni ben diverse, mi hanno spinto a riflettere sulla scrittura. Lo faccio con piacere.

Con l’aulica scusa dello “scripta manent”, corriamo a suggellare con la forma scritta ogni intesa ed ogni patto, siano essi di natura contrattuale, organizzativa o di semplice amicizia. Firmiamo contratti scritti, lavoriamo sulla scorta di istruzioni “word”, ci aggreghiamo e ci confessiamo con lunghe e-mail e divertenti sms… Ci siamo convinti che “se non è scritta non vale, se non lo scrivo non mi ricordo”. Siamo caduti rapidamente in una inconsapevole trasumanza: dal “verba volant”, al fugace “scripta manu”, fino all’inevitabile ed irreversibile “scripta tastu”. Conversazioni telefoniche, lunghe chiacchierate, intese di sguardi ed equivoci vocali: eravamo questo. Soli con noi stessi, con le nostre emozioni e con le nostre capacità. Non l’ausilio del ricordo artificiale di una mail antica, non la maschera di un messaggio sibillino. Non avevamo bisogno di archiviare la conversazione, al limite ripetevamo alla nausea gli stessi concetti, pazienza… Non avevamo bisogno di nasconderci dietro l’sms algido, al limite esitavamo una volta, ma la seconda… Parole dette da una voce che suona, pensate da un cuore che pulsa, accompagnate da occhi che guardano, facce e gesti che esprimono. Eravamo questo. Eravamo NOI. Ora usiamo il telefono per scrivere ed il computer per parlare; ci siamo convinti che il nostro “viaggio” ci abbia portato ad un’ambita meta. Io non scrivo più con la penna, esterno ciò che penso attraverso un blog, parlo ai colleghi e agli amici con l’impersonalità della posta elettronica. Non è che con questo viaggio siamo andati indietro?

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La calce del muratore

Un paio di giorni fa è apparso su La Repubblica un articolo-indagine molto interessante. Descrive personaggi molto comuni nella realtà vicina a noi. O almeno, a me è parso naturale pormi delle domande in riferimento a persone che conosco e che saluto abitualmente.
Lo so è lungo, ma non l’ho scritto io quindi… è di facile lettura.

Si drogano per abbattere la fatica. E aumentare la produttività. Tirano cocaina e ingrossano lo stipendio. Si sentono indistruttibili. Sgobbano anche quindici ore di fila in cantiere. Dall’alba fino a sera. Da lunedì a venerdì. Poi, il fine settimana, si devastano nei locali. Ancora polvere bianca, e alcool. Stavolta per sballare. E così l’orologio gira alla rovescia: in giro la notte, a letto, sfatti, di giorno. È il doping dei nuovi muratori. Una generazione avvelenata cresciuta nel Nord onnivoro e opulento, dove il cemento non dà solo da vivere.

È anche un’occasione di riscatto sociale. Cotto e mangiato il sabato sera nei privé delle discoteche del Garda. Uno su cinque, dicono fonti attendibili di medicina del lavoro, ne fa uso. Almeno tra i giovani. Sono manovali dipendenti, ma soprattutto cottimisti: più lavorano, più guadagnano. Tremila, quattromila euro il mese. Abbastanza per pagare le rate della Mercedes. Comprano la “neve” a 30 euro a dose dai marocchini del Carmine, 20 se sei cliente fisso. La scorta la fanno il sabato notte. Nella casbah del centro storico, o alla stazione. Così sono a posto per tutta la settimana. Si alzano dal letto e se la sparano dopo il caffè. Prima di andare in uno dei 15 mila cantieri che si aprono ogni anno nel Bresciano. «Questi nuovi drogati sono il frutto avvelenato della deregulation dell’edilizia – dice Ettore Brunelli, medico del lavoro, assessore verde alla Mobilità di Brescia – . La nostra è un’economia dopata che genera doping. Basta farsi un giro nei paesotti della bassa bresciana. Guardare i macchinoni. E sopra questi ragazzi muscolosi con gli occhi schizzati di fuori. Le stesse facce le vedi all’alba sui furgoncini. Sembrano indemoniati, sembra che vadano in guerra. E invece vanno a costruire case».

Cose che succedono nel quadrilatero del mattone e della coca. Bergamo, Brescia, Verona, Milano. Duecentomila muratori tra regolari e “in nero”. Centoventimila imprese censite. Più le altre, quelle fantasma che servono a riciclare il denaro della malavita siciliana e calabrese. A spremere come limoni gli schiavi apprendisti venuti dal Sud e dall’Est del mondo. Sono sempre sopra le righe questi operai dopati. È come se le loro braccia andassero a batteria. Invece vanno a coca. Movimenti in automatico, accelerati. Energia a getto continuo. Incomprensibile agli occhi dei padri delle costruzioni, i loro nonni, gente tosta venuta su a capriolo, polenta e cemento. Al massimo alzava un po’ il gomito la vecchia guardia del calcestruzzo, ché «un bicchiere di vino non ha mai ucciso nessuno». Calavano dai crinali della Valle Camonica. Prima di loro vedevi arrivare le mani; dei nipoti, invece, noti soprattutto l´innaturale sopportazione della fatica. La tempra artificiale.

Dice Francesco Cisari, segretario provinciale della Cgil: «Il settore è completamente destrutturato. Si lavora con ritmi pazzeschi. C’è un cottimismo sfrenato e così, per essere sempre pronti e in forza, i nuovi muratori usano gli stupefacenti». Aggiunge: «Una volta la piaga del settore era l’alcolismo. Ma quello fiaccava il corpo. La coca invece ti fa sentire potente. In grado di sopportare orari di lavoro massacranti». E anche di produrre danni irreversibili. «I muratori che si fanno di coca sono pericolosi per sé e per gli altri», spiega Maurizio Marinelli, direttore del centro studi sulla sicurezza pubblica, un osservatorio sulle dinamiche impazzite della società. Ma non bisogna stupirsi. «Sono la naturale conseguenza di un territorio malato com’è quello del Nord. Le imprese coi loro profitti gonfiano le banche, e dietro ci sono fenomeni inquietanti come questo», ripete il parlamentare diessino Franco Tolotti.

A Brescia sembra di essere tornati agli anni %u201890, quando dai paesini dell’hinterland, Castel Covati e Travagliato, batterie di carpentieri specializzati salutavano gli amici al bar e partivano per tirare su case in Africa e Iraq. «Lavoravano come matti tre o quattro mesi, poi tornavano e per altri quattro mesi andavano in giro a fare la bella vita, a rovinarsi di droga e alcol», racconta ancora Ettore Brunelli. Come fecero, si suppone, i cottimisti che costruirono il terzo anello dello stadio di San Siro. I Mondiali di Italia %u201890 erano alle porte. Il giorno della paga i poliziotti fecero irruzione allo stadio. Circondarono gli operai mentre venivano saldati dai caporali. Nella buste del salario, assieme ai soldi, trovarono decine di dosi di cocaina e eroina. «Di quella storia non si è più saputo nulla – ricorda Marco Di Girolamo, responsabile di Fillea per la provincia di Milano – . Ma di certo segnò una pagina oscura nel nostro settore». Sono passati sedici anni. È come se il Nord avesse fatto di colpo un passo nell´800. Allora erano i governi che pianificavano la distribuzione della cocaina ai soldati e agli operai delle fabbriche per aumentare la produzione. Oggi sono i padroncini che si fanno di roba. Autonomamente. Per girare con il portafogli gonfio. «È anche un problema di identità. La coca per i muratori è una forma di partecipazione sociale. Come dire: ci sono anch’io». Caterina Gozzoli insegna psicologia del lavoro all’università Cattolica di Brescia e di Milano. Lei parla di modelli sociali da inseguire. «Non è solo questione di soldi. È l’emarginazione cui ti costringe la società se non stai al passo. Diventa un circolo vizioso».

Nel cantiere dei muratori drogati ognuno lavora per tre. La mente si spegne come un grande interruttore. Si sentono solo i rumori dei macchinari. L’abbaio assillante del martello pneumatico. Gli affondi della ruspa che rovista nel fango. Loro, gli operai, farebbero a meno anche del panino. Dicono che della “schisceta” non ce ne sarebbe nemmeno bisogno. Hanno occhi sbarrati o mobilissimi. Le parole che s’infrangono una addosso all’altra. Un dialetto torrenziale balbettato in fretta. «Mica perdiamo tempo noi», dice in bresciano stretto toccandosi i bicipiti tatuati un uomo sulla trentina che si chiama Leo mentre impasta la malta in un cantiere di Castenedolo. Chiedergli della droga sul lavoro è un boomerang: «Queste cazzate tenetele per voi che è meglio».

I suoi colleghi di mattone li puoi incrociare la mattina all’alba. Sulle strade provinciali che tagliano le campagne di Orzinuovi e di Chiari, che seguono il corso del fiume Mella indicando la via del lavoro alle utilitarie e ai Transit con su la manovalanza. Oppure nell’immensa cintura di Milano coi suoi 55 mila operai, quasi tutti pendolari bergamaschi. E certo nella placida bassa bergamasca, che non ha niente a che vedere con le valli dove negli anni %u201880 era l’eroina era l’estrema via di fuga dal mal di montagna. «Molti incidenti sul lavoro, o per strada, oggi coinvolgono muratori che hanno assunto stupefacenti – dice Alessandro Fusini, segretario Fillea della Cgil – . Fanno in una giornata quello che uno farebbe in due giorni. Magari lo fanno male, ma lo fanno. E se sopra di loro non hanno capi, se sono lavoratori autonomi, fanno quello che vogliono. Non devono rispondere a nessuno». Nemmeno al loro corpo.

(“I muratori che tirano coca” di Paolo Berizzi, da “La Repubblica” del 20 settembre 2006)

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La ragione della religione

Ho letto integralmente (e lo sconsiglio a chiunque non abbia parecchio tempo a disposizione) il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. L’ho fatto per capire, senza condizionamenti o filtri mediatici, quale fossero le reali parole pronunciate dalla bocca del Pontefice e quale fosse il senso generale del suo discorso. L’ho fatto per verificare se palesemente, o almeno tra le righe, vi si potesse scorgere un attacco all’Islam e alla dignità degli islamici.
Il lunghissimo intervento è una dissertazione filosofica piuttosto complessa sull’eterno rapporto tra religione e ragione. Con mille ragionamenti, sviluppati e condotti in una giungla di tesi ed antitesi, Razinger arriva alla conclusione della necessità del dialogo razionale tra le religioni, giacché la “non ragione” è di per sé contraria alla natura divina.
L’ampia esposizione utilizza come espediente introduttivo la richiesta, contenuta in una testo medioevale, fatta dall’imperatore bizantino Manuele II ad un erudito persiano: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. Egli premette che la frase appartiene ad un resoconto di parte, ovvero avverte l’ascoltatore che il testo in questione non si preoccupa di raccogliere le osservazioni del persiano. È tuttavia uno spunto per iniziare un dissertazione sulla necessità di contemplare la ragione tra le prerogative della cultura religiosa.
Ora, la reazione del mondo islamico per le parole del Papa appare evidentemente non sproporzionata, ma addirittura insensata. Non vi è nessun attacco, trattandosi di una semplice citazione (peraltro efficacemente illustrata) necessaria ad aprire una conferenza riguardante tutt’altro concetto. Vi è di più. Il lungo ragionamento che sfocia nell’appello al dialogo interreligioso dovrebbe far intendere il contrario: non un attacco, bensì il riconoscimento dell’importanza del dialogo stesso e la disponibilità a parteciparvi.
L’Islam ha bisogno di pretesti, è chiaro. Ma cucirsi la bocca per non offrire il fianco, o rettificare ogni parola contestata, non può essere la soluzione al problema. Se poi un pontefice deve giungere a giustificare quello che “non ha detto”, è chiaro che il limite della ragionevolezza è stato abbondantemente oltrepassato. È se le parole di Razinger suonano come un affronto, una mancanza di rispetto alla fede musulmana, che dire delle uccisioni e del terrore seminato dall’altra parte? Si tratta forse di un atteggiamento congruo o quantomeno di una reazione commisurata?
Continuerò a dirlo: la soluzione può venire solo dall’Islam stesso, poiché il dialogo si fa in due. Se uno dei due interlocutori non vuole conversare, il secondo potrà sforzarsi fino allo strenuo delle forze, ma resterà per sempre a parlare da solo.

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La voce flebile di Oriana

La notte scorsa è morta Oriana Fallaci. Dopo aver combattuto e vinto a colpi di penna molte epiche battaglie, è stata sconfitta nella guerra più importante. Quella che da tempo aveva logorato la sua “prima linea”, quella che l’aveva costretta a ripiegare, a ritirarsi piano piano, disarmata dal destino.
Più odiata che amata, come accade alle persone di carattere che non suscitano mai indifferenza. Aveva preso le difese della cultura occidentale, mettendola in guardia dal pericolo islamico. Lo aveva fatto senza i fronzoli stupidi e le provocazioni assurde di certe forze politiche. Lo aveva fatto senza ipocrisia e senza demagogia.
La ricordo dura, spietata, a volte crudele. Con lei muore quella parte di cultura e di capacità d’espressione che arginava il monopolio della sinistra. Sì, perché non è vero che la sinistra ha il controllo della cultura, ma è vero che la destra non è in grado di esprimersi in maniera adeguata e ad alti livelli. Ne consegue che intellettuali e comunicatori di alto profilo si ritrovano schierati da una sola parte. Si è spenta l’ultima voce che faceva da contralto: ora resteremo ad ascoltare una sola campana.

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Il vero successo di Lucky Luciano

Non ho assistito, più o meno volontariamente, all’intervento di Luciano Moggi alla trasmissione “Quelli che il calcio…”. Pare si sia difeso, e ne aveva il diritto, da tutte le accuse ricevute. Come lo abbia fatto, che cosa abbia detto, quali siano state le sue motivazioni non mi è dato di sapere. Trovo alquanto immorale e beffardo che l’abbia fatto senza un contraddittorio. Da abile ammaliatore, posso immaginare che gli sia risultato semplice argomentare la difesa, senza nessuno che lo accusasse e lo mettesse in seria difficoltà di dibattito, con il muro alle spalle e l’evidenza davanti agli occhi. Un proclama senza dispute o confronti, in nome del solito ed insensato “buonismogarantismo” dell’ipocrita medio. Trovo altresì inaccettabile che nella stessa trasmissione gli faccia eco il Ministro della Giustizia, ovvero colui che dovrebbe garantire la giustizia e non vendere la nebbia. Incontrastato e incontestato, addirittura difeso da Mastella… mica male! Moggi, dimettendosi in tempo, ha evitato le sanzioni della giustizia sportiva (figuriamoci se quella ordinaria entrerà mai nella vicenda!). Ora ha già preparato una capatina a Matrix, premiato palcoscenico di Mentana. Chissà in quali altri programmi presenzierà, per fare audience. Tra poco magari un libro dal titolo “tutte le verità”; più avanti un film?
Questa sarebbe la persona che sta pagando in prima persona la crisi del calcio italiano? Sarebbe lui il capro espiatorio di tutta questa triste vicenda? Allora complimenti Lucky, davvero un bel colpo!

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L’essenza del Festivaletteratura

È difficile spiegare a chi non ha mai partecipato, che cosa sia il Festivaletteratura. D’accordo, è una manifestazione che propone eventi di vario genere, raccogliendo scrittori, giornalisti, musicisti di fama nazionale ed internazionale. Ma questo dice poco. Non si riesce a darne l’effettiva essenza, solo enfatizzandone l’importanza e lo spessore. Citando nomi illustri, o sciorinando avvenimenti apparentemente interessantissimi, risulta complicato dare la vera dimensione della manifestazione. Che cosa sia il Festivaletteratura lo si capisce vivendo la città nei giorni della rassegna. Lo si capisce percorrendo le vie, in genere popolate dalle solite facce, ed ora divenute traboccanti di turisti. Gli angoli più belli della città, allestiti per ospitare gli eventi più diversi, acquisiscono una luce nuova, un fascino più intenso. Ho visto spazi che conoscevo, ma che non mi sono mai preso la briga di visitare. Ho scambiato libri usati, per il solo piacere di cercare e trovare. Ho chiesto a scrittori famosi di firmarmi vecchie copie delle loro opere, già lette, per il gusto di scorgere il mio nome scritto in maniera veloce ed incerta sulla prima pagina dei miei libri preferiti. Ho visto Mantova viva, non di una confusione caotica ed innaturale, ma di un entusiasmo tranquillo e pulsante. Ho respirato l’aria della cultura, quella che non ho, senza il timore di non sentirmi all’altezza. Ho girovagato senza una meta apparente, cercando di raccogliere gli odori e le forme più suggestive. Questo è il Festivaletteratura, un crogiuolo di immagini, figure e sensazioni. Rimane difficile definirne i contorni ed impossibile fissarne i colori.

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Giacinto, fiore d’eleganza

Il giacinto è un fiore molto profumato, bello, semplice. Il giacinto è soprattutto un fiore molto elegante. Giacinto è anche il nome di un grande campione scomparso oggi, alla stessa età dei miei genitori. Anche lui, evidentemente investito dal destino del nome che portava, era soprattutto molto elegante. Galleggio a fatica nei fiumi di parole che inneggiano alla sua lealtà e correttezza, al suo “essere uomo per bene”, tipico del campione dentro e fuori dal campo. Io, tifoso della sponda opposta, amo ricordarlo semplicemente elegante. Una dote rara, e per questo preziosa. Ricordo l’eleganza delle sue movenze, dei suoi abiti, delle sue parole. Lo ricordo signore di stile, d’immagine, di personalità. Mancheranno il suo tono pacato e signorile, mancheranno i suoi modi lineari e ordinati. Ciao Giacinto, fiore d’eleganza.

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La base d’asta

Come sempre accade, al termine dell’annuale asta del fantacalcio i partecipanti mi chiedono se sono soddisfatto. Come sempre accade, per una sorta di “precauzione congenita”, rispondo che non lo so affatto. Anni e anni di militanza mi hanno forgiato diplomaticamente. Mai essere ottimisti in questa materia: la dea bendata decide la sorte di ognuno, da essa pendono meriti e demeriti, gioie e dolori di una stagione intera. Il resto sono chiacchiere. Belle e colorate, piacevoli e melodiche… ma pur sempre chiacchiere.
C’è tuttavia una cosa che mi inorgoglisce e mi soddisfa. Un lato più oscuro e meno tangibile, collocato bene a ridosso di questa passione. È la gioia di aver creato dal nulla un gruppo di persone affiatate, legate tra loro con il banale legaccio di un divertimento condiviso. Insieme al grande amico Glauco, alla sua affabilità ed organizzazione, abbiamo raggruppato persone che non si conoscevano, lontane anche centinaia di chilometri. Il tentativo velleitario di mettere in piedi un campionato di sconosciuti è sfociato in un incantevole epilogo. Abbiamo creduto nella semina, ci siamo impegnati con attenzione nella coltivazione, ed ora assaporiamo i ricchi frutti.
Oggi la Lega è un gruppo coeso di amici che si scrivono, si ritrovano, parlano e si divertono. Ed i giochi intellettivi, i ricatti psicologici, i grandi bluff che appartengono alla concezione dell’asta non fanno che rafforzare e rinsaldare il legame esistente.
È di questa opera di ingegneria sociale che mi compiaccio.

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