Archive for settembre 2020

“Sì”, quel sapore di vendetta

Il popolo cornuto era, e cornuto resta:

la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo

e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé,

del colore che gli piace, alle proprie corna.

(L. Sciascia, Il giorno della civetta)

Generalmente con il termine “populismo” s’intende l’atteggiamento di chi mira ad ingraziarsi le classi più povere, usando la demagogia per accattivarsi il favore degli elettori. Il populismo ha come caratteristica imprescindibile la contrapposizione popolo/élite. Su questa antinomia fonda tutta la propria essenza e su questo conflitto basa ogni sua argomentazione: noi popolo (buono), contro loro casta (cattivi).

Uno degli slogan più populisti di sempre è “meno poltrone”. La riforma costituzionale, che a giorni verrà avallata dal referendum, risponde esattamente a questo bisogno intestinale: meno poltrone, meno cattivi. Si tratta ovviamente di una semplificazione assurda, che gioca sull’ambiguità e sul torbido per raggiungere il mero scopo del consenso.

Tra le sommarie motivazioni che spingono a votare “Sì”, la più forte è rappresentata dal fantomatico risparmio di risorse a fronte del taglio di parlamentari inetti. Secondo le stime più generose il risparmio, che va calcolato al netto e non al lordo delle imposte e dei contributi, sarebbe intorno ai 57 milioni di euro annui (stima di Cottarelli). Se la vera motivazione fosse questa, basterebbe ridurre lo stipendio di tutti i parlamentari, senza necessariamente cambiare la Costituzione. In verità, per dirla tutta, se parliamo di 57 milioni parliamo di bruscolini. Dalla sua nascita Alitalia è costata ai contribuenti più di 12 miliardi di euro (fonte Il Sole 24 ore). Il Codacons, calcolando il taglio dei parlamentari al lordo, ha quantificato un risparmio di 3 euro a famiglia. Di cosa parliamo? Inezie.

A conferma che si tratta di una mera campagna populista, volta a riscuotere facile e cieco consenso, annoto letteralmente un’altra motivazione dei sostenitori riformisti: “Votiamo sì, perché il Parlamento è il cuore della democrazia”. Bene, siamo tutti d’accordo, ma qual è la relazione tra questa affermazione e la modifica costituzionale? Nessuna, appunto.

La verità è che questa scure verticale si abbatte senza criterio e senza ragione ponderata. Senza entrare nei tecnicismi, ci sono invece almeno tre motivi validi per votare “No”.

  • Ridurre il numero degli eletti significa ridurre la rappresentanza: meno eletti rappresentano meno potenziali istanze da rappresentare. Tant’è che tra i grandi paesi europei l’Italia si prospetta a diventare il Parlamento più piccolo in proporzione alla popolazione;
  • Meno eletti significa gruppi parlamentari più piccoli, meglio controllabili dai vari capibastone, con buona pace del dibattito corale e della democrazia;
  • Meno eletti significa meno impedimenti nel processo decisionale, col rischio che le leggi siano sì più rapide, ma anche più impulsive e più incomplete. Il Parlamento nasce dalla Carta Costituzionale come luogo per dibattere, confrontare, accogliere, arricchire. Doveva essere un organo per incrementare il confronto, non per protocollare le scelte di pochi. Seguendo questo ragionamento capzioso, la dittatura dovrebbe essere la migliore delle opportunità, perché per definizione non ammette distrazioni parlamentari.

Questa riforma instilla solo un’illusione di vendetta contro una casta inarrivabile e maledetta, una vendetta scatenata per il gusto di fare giustizia sommaria ed illudendo il popolo che è nel suo immediato interesse farlo. Nel suo libro “Populismi 2.0” il professor Revelli annota che “in genere i populismi assumono un linguaggio e uno stile rivoluzionario, senza tuttavia necessariamente rinviare a radicali rimesse in discussione degli assetti sociali, anzi spesso limitando la dimensione radicale del mutamento al solo livello del personale di governo”. È quanto sta accadendo, né più, né meno.

Andando indietro, invece, già Polibio aveva individuato il vero rischio. Si arriva all’olocrazia (o governo della plebe), degenerazione della democrazia, quando smarrito il valore dell’uguaglianza il popolo ambisce solo alla vendetta.

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Occhi? Cerulei

Tu apri il tuo armadio e scegli, non lo so, quel maglioncino azzurro infeltrito per esempio,

perché vuoi gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di cosa ti metti addosso,

ma quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo
(Dal film Il diavolo veste Prada)

Nella casa dei miei genitori ci sono parecchi cassetti, scatole e scatoline dal titolo “intanto appoggia qua, poi vediamo dove metterlo”.

In uno di questi anfratti, rovistando in un vecchio soprammobile di porcellana, ho trovato la carta d’identità del mio bisnonno Natale. Correva l’anno 1934 e c’era un altro mondo. Mussolini incontrava per la prima volta Hitler, in Germania andava in scena la Notte dei lunghi coltelli, in America nasceva Paperino…

Il documento è un reperto bellissimo, accurato, rigorosamente ordinato. Le generalità sono scritte a mano con la stilografica, i timbri viola risaltano sul freddo “bianco e nero”, la firma del podestà ricorda quell’aria lontana di regime e dittatura. La cosa che più mi piace è però la definizione che l’impiegato ha dato del colorito degli occhi: cerulei. Che se chiedi oggi all’anagrafe, il dipendente statale di turno neppure conosce il significato di “ceruleo”.

Non azzurro, non blu, non turchese. Il burocrate del regime ha scelto la parola “ceruleo”. In questo termine ci vedo la ricerca appassionata del particolare, il meticoloso tentativo della perfezione, il vano sforzo di dare un significato personale ad un protocollo ripetitivo e statico.

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