“Del maiale non si butta niente”: cronaca di una giornata d’altri tempi


Tutto inizia con Marcello, scaltro nel verificare per interposta persona la mia disponibilità a collaborare in un giorno in cui il sottoscritto avrebbe dovuto essere al lavoro. Manda in delegazione sua moglie Luciana, essendo lui troppo orgoglioso per ammettere di aver bisogno d’aiuto (in questo ricorda vagamente il figlio). Da qui comincio ad entrare in un’atmosfera particolare, fatta di ricordi, odori ed emozioni.
Rivedo tutti miei zii attorno ad un tavolo, con io, piccolo, che gioco con i cugini e faccio domande su ogni attrezzo, su ogni processo. Penso a mio nonno, che mi ha lasciato troppo presto e che adorava vedere i propri figli, e i figli dei figli, riuniti a lavorare davanti ad un unico focolare. Una scia di episodi mi investe come un faro abbagliante su una strada di aperta campagna: i cuginetti inconsapevoli, inviati per scherno a comprare lo “sgüra rece”; le mani sapienti della zia (camiciaia d’origine controllata e garantita) che legavano i salami ad una velocità sconvolgente; le costine alle due del pomeriggio, quando tornavo in corriera dalla lunga mattinata al liceo, tra consecutio temporum ed enjambement senza sapore. Ripenso anche ai valori in via d’estinzione, alla famiglia, all’unità, al lavoro manuale, al sacrificio e alla soddisfazione… cose che la tradizione contadina ci ha trasmesso e che ormai irrimediabilmente stiamo perdendo.
L’ansia che investe i bambini il giorno prima della gita, fa trascorrere la notte insonne a mio padre. Alle cinque lo sento alzarsi, dopo un quarto d’ora lo immagino operativo con la moka di caffè sul fornello e un sottogola da rifilare proprio in mezzo al tavolo. Scendo in campo in un orario per me assurdo ed inizio ad armeggiare con coltelli a varie misure e un costato che pare quasi umano. Il pallino della medicina legale è ancora vivo: me la cavo con discreta disinvoltura tra muscoli da sezionare, girelli da riconoscere e tessuti lardosi da scorticare. Un mestiere primitivo, manuale, brutale. Un’essenza e un fascino particolari e reconditi, difficili da apprendere, ma impossibili da scordare. Disossiamo, separiamo carni, maciniamo ed insacchiamo quello che il giorno prima era un povero maiale e che ora è carne. Solamente carne.
L’odore acre del macello e della carne fatta a pezzi si mescola alla pesante sensazione di fatica, allo spossatezza infinita dello sforzo fisico: se non fosse per l’ambiente chiuso, diresti proprio di essere in un campo di battaglia. Ecco allora che deponiamo le armi e seppelliamo gli ultimi nemici, che col passare delle ore sono divenuti gloriosi trofei.
Ci riposiamo, chiacchieriamo un po’ con lo zio giunto in extremis al momento di insaccare, giusto per non dare l’impressione di aver scroccato la cena e per mangiarsi anche una fettina di gloria.
Poi arriva la cena, dove i ricordi bussano incessantemente e dove le coscienze aprono volentieri la porta. Penso a quel libro rosso, che tutti i parenti firmavano è completavano dopo ogni “battaglia”, che ora giace esanime in un cassetto polveroso. Mi tornano alla mente i soliti discorsi sulla resa del maiale e quei conti strampalati, tracciati alla stregua di un droghiere su un foglio di Gazzetta o sopra il sacchetto del pane. E soprattutto ricordo il vecchio Lele, che dall’età della ragione non ha mai perso l’occasione di vivere a casa mia la celebre “cena degli ossi”. Ogni anno presenziava, col fare sornione e l’approccio del lupo di mare appena rientrato in porto, tra il calore degli amici più veri. Il suo usuale dibattito filosofico sulla maniera di cucinare il risotto, i suoi commenti sul vino, la sua diffidenza verso il dolce: lui, insomma.
Ecco perché “del maiale non si butta niente”: perché alla fine conserviamo anche le suggestioni e le emozioni che immancabilmente lo sfortunato verro suscita e trascina con sé.

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