Né partito né democratico


Il dizionario Treccani alla voce “partito” recita: associazione volontaria di cittadini con una propria struttura organizzativa, costituita sulla base di una comune ideologia politico-sociale e avente come obiettivo la realizzazione di un determinato programma, attraverso la partecipazione alla direzione del potere.
Stando a questa definizione, risulta abbastanza facile confutare la natura partitica del costituendo Partito Democratico. L’imminente soggetto politico che riscalda la vecchia minestra dell’Ulivo, senza peraltro aggiungere ingredienti ulteriori né mutare l’identità dei commensali, è privo infatti di quell’attributo essenziale di unità programmatica ed ideologica che distingue (o dovrebbe distinguere) i partiti dalle più blande associazioni degli stessi. Cattolici e comunisti potranno anche correre insieme alle elezioni, ma non possono identificarsi appieno sotto il medesimo gonfalone. Un conto è camminare fianco a fianco per arginare le furie dell’avversario politico e contrastarne i diabolici disegni, ben altra cosa è fondersi in un’unica anima capace d’interpretare sentimenti comuni e comuni strategie. D’altro canto le esperienze delle ultime stagioni hanno già mostrato che a sinistra ci si può aggregare fin che si vuole, ma che per governare bene è necessaria l’unicità di intenti e vedute.
La bagarre per la corsa alle candidature del PD rende anche discutibile la scelta dell’attributo democratico. Le esclusioni di Di Pietro e Pannella, entrambi schierati nello sconfinato spazio del centro-sinistra, a tutto rispondono fuorché ai criteri di democrazia. In un vero partito democratico infatti, chiunque può aspirare alla leadership, dal momento che la scelta della guida è demandata in toto alla sovrana volontà dell’assemblea dei cittadini. La bocciatura dei due cavalli sani suona piuttosto come l’eliminazione di possibili ostacoli alla galoppata del candidato prescelto. Togliere a Veltroni i possibili veri concorrenti (non si penserà che Rosy Bindi sia una vera candidata alla leadership??), significa di fatto consegnargli il timone del partito ancora prima delle elezioni primarie. Anche in questo caso la commedia delle precedenti primarie uliviste, che investirono Prodi di ogni potere, depone a favore di questa tesi. La scelta del candidato operata nella stanza dei bottoni viene mascherata da plebiscito popolare.
Ho sempre sostenuto il bipolarismo, ma nella situazione italiana è davvero dura rimanere coerenti con le proprie idee. Da un lato la continuità del cavaliere nero e del suo entourage preposto a consolidare il potere del padre padrone. Dall’altro gli eterni incompiuti, capaci solo di riunirsi, chiacchierare e fondersi insieme l’un con l’altro. Ulivo, Unione, Partito Democratico… come se cambiare la salsa di una pasta scotta potesse appagare la grossa fame della società italiana.

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