Archive for category Varie

Dall’homo faber al conclave

Il mio lavoro ormai è costituito al cinquanta-sessanta per cento da riunioni. Riunioni per decidere, riunioni per decidere come decidere, riunioni per decidere come decidere chi deve decidere. E così via.

Venerdì ho trascorso la giornata lavorativa tra un conclave e l’altro. Poi di corsa a casa, per una riunione in Comune alle 18 ed una del P.G.T. alle 20.30. Sabato mattina, l’adunata con la redazione di Voltapagina. Ora, è opinione diffusa che l’assidua partecipazione ai tavoli delle decisioni sia direttamente proporzionale all’importanza dell’individuo nella società: più riunioni fai, più importante sei.

No. Personalmente continuo a sostenere la nobiltà e la centralità dell’homo faber, colui che fa e soprattutto colui che crea. Lavori manuali, ma non solo. Si può lavorare solo con la mente e creare opere eccezionali. E più uno crea, più è importante.

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Se il buongiorno si vede dal panino

Annuntio vobis gaudium magnum (o “gaudium magnandi”, nel senso di gioia del mangiare). Non c’è bisogno di chiarire all’intelligenza dei lettori di questo blog, che il gaudio è in realtà un angosciato eufemismo.

Ieri, spinto dalle necessità e trascinato da un’orda di barbari colleghi, sono tornato al McDonald. Mancavo esattamente da dieci anni, da quando nel lontano 2000 alcuni amici mi trascinarono a trascorrere la fine di un inconcludente sabato notte tra hamburger, patatine alla colza e pane al poliuretano espanso.

Tu quoque Silvio… ebbene sì! Mi vergogno di me stesso e dalla mia forza volontà che non ha saputo imporsi e ribellarsi.

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La valigia dei desideri, i desideri per una valigia

La valigia sul letto, quella di un lungo viaggio

e tu senza dirmi niente hai trovato il coraggio…

(J. Iglesias – Se mi lasci non vale)

La scorsa settimana a Fiumicino mi hanno rotto la valigia. Due giorni fa me l’hanno imbarcata su un volo sbagliato. Lasciando perdere i ritardi cronici (mediamente un ora) al ritiro bagagli, dovuti probabilmente all’eccessiva riduzione del personale di terra, lasciando perdere che ad ogni viaggio la mia valigia sembra aver percorso la Parigi-Roubaix con le proprie ruote, come si fa ad accettare tutto passivamente?

Le lamentele scritte ed i reclami valgono quanto un manifesto del Gastone affisso in Uzbekistan, la trafila per ottenere i risarcimenti è burocraticamente più complessa di una richiesta di cittadinanza svizzera.

Io tra un po’ me ne scappo in Svezia e non mi sentite più.

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La pioggia nel pineto

Nell’atmosfera surreale di una pioggia ininterrotta e copiosa, mi è venuta in mente una poesia che tanto mi fece riflettere. La pioggia nel pineto, forse il più bel canto di D’Annunzio, è carica di emozioni. Sentimenti che debordano e permeano ovunque, come la pioggia che scende a dirotto nel bosco.

Il poeta passeggia sotto l’acquazzone con la sua donna, Ermione, ed in silenzio ascolta la musica delle gocce, la voce della natura, il sussurro delle piante e del bosco. L’empatia e l’armonia con l’ambiente circostante sono tali, che i due finiscono per subire una fiabesca metamorfosi vegetale. Il trasporto è così grande che gli amanti giungono ad una dimensione nuova, prima sognata, poi raggiunta.


Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove sui pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitio che dura
e varia nell’aria secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancora, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immensi
noi siam nello spirito
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, Ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta: ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le palpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alveoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
( e il verde vigor rude
ci allaccia i melleoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

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Per fare un albero, ci vuole un seme

 

“Per il duello con quell’ipocrita del farmacista, che si vantava d’essere erede della migliore tradizione illuminista, laica e bonapartista, aveva ritagliato una frase di Napoleone che riassumeva il peggio della visione maschia del mondo che ancora gli sembrava dominare l’Italia del dopoguerra: «La donna è nostra proprietà, noi non siamo la sua, poiché essa ci dà dei figli e l’uomo non ne dà. Ella, dunque, è la proprietà dell’uomo, come l’albero da frutto è proprietà del giardiniere»”
(G.A. Stella – Il maestro magro)

Affermazione discutibile o facilmente confutabile, ma certamente esplicativa di un certo maschilismo estremo. In questo blog a volte sostengo, altre volte semplicemente provoco.
L’idea che la donna sia nata per procreare non è affatto peregrina ed il sostenere che il raggiungimento della sua completezza umana avvenga con la maternità ha una sua, seppur esile, ragionevolezza.

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Dieci motivi per lavorare a Roma

1- Salire su un Audi A6 blu, con l’autista privato ed i vetri oscurati mi fa sentire un magistrato in carriera o un parlamentare leghista che sverna a Roma. Quando sfreccia a velocità impossibili da Fiumicino all’Eur, viene spontaneo guardarsi dietro per vedere dove è finita la scorta.

2 – Il tempo trascorso all’aeroporto o sugli aerei mi consente di leggere almeno due quotidiani a settimana. È una cosa che amo e che non trovavo più il tempo di fare. La pagina sui polpastrelli dà l’ebbrezza sensoriale di una romantica antichità.

3 – I ritmi di lavoro sono leggermente dilatati. È chiaramente una questione filosofico culturale, ma alzarsi con calma e iniziare senza frenesia a volte cambia davvero la giornata.

4 – Clima fantastico. Girovagare in dicembre in fresco lana non è proprio da tutti.

5 – I tassisti sono maschere di teatro, attori professionisti, macchiette uniche. Con le loro battute si potrebbe scrivere un libro. Per ora sono sufficienti ad allietare le giornate più pesanti.

6 – La metropolitana è un ottimo parco somiglianze. Durante gli spostamenti bisogna pur farsela passare: fantasticare sui visi e proporre accostamenti più o meno calzanti è uno dei miei hobby preferiti. Per ora è in testa Battiato, dell’ufficio di fianco, con il 92-93%.

7 – Le sporadiche passeggiate per il centro si permeano di storia. Sapevo che Roma è una città bellissima, ma non credevo potesse suscitare una suggestione così forte. Lo sguardo si riempie di cultura, quasi senza accorgersene.

8 – Gli uffici delle Poste Italiane sono famosi per due cose: la sontuosa mensa interna e le greggi di fanciulle che pascolano tra corridoi e saloni. Gusto e vista risultano abbondantemente appagati.

9 – Le scenette che si vedono ai controlli di sicurezza meriterebbero un capitolo a parte: gente con coltelli nella valigia, turisti costretti a gettare confezioni di salmone o vino pregiato, anziani goffamente perquisiti o donnine succinte che sperano invano nella perlustrazione di avvenenti agenti della security… uno spasso.

10 – Se spendi 4,23 euro a pranzo, sai perfettamente che te ne restano 31,92 per la cena. La paura di sforare sulla diaria del vitto fa sviluppare un’innata capacità di calcolo matematico. Potrei fare il bilancio degli Stati Uniti in mezzora (Tremonti al cospetto diventa un ragioniere di primo pelo) o insegnare agevolmente meccanica quantistica ad Harvard.

A breve inserirò anche i dieci motivi per NON lavorare a Roma

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Intelligenza, ignoranza, buonsenso

Se sai di non sapere, se sai di non capire, è intelligente essere deferenti. Invece assistiamo sempre più a un crescendo di «ignoranza armata», e così di un’ arroganza dell’ ignoranza, che rappresenta un perfetto e devastante cretinismo pratico“.

(Giovanni Sartori – Corriere della Sera, 11 ottobre 2008)

Ho trovato la citazione attualissima nel contenuto e valida per intavolare un dibattito. Come l’intelligente deve dotarsi di buonsenso, perché l’intelligenza non è fine se stessa, così anche chi sa di non capire potrebbe armarsi di buonsenso e limitare i danni.

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Kafkiane percezioni

Periodo particolare questo, in cui mi sovviene spontaneo descrivere sensazioni strane.
Avete mai letto Il processo di Kafka? È la storia di un uomo che si sveglia dall’oggi al domani imputato in un processo, senza saperne il motivo. Si ritrova improvvisamente in un vortice privo di senso, costretto a difendersi da accuse che non conosce, obbligato a parlare davanti a relatori che non esistono, forzato a spiegare circostanze che non ci sono. Una dimensione inverosimile, somigliante ad un enorme equivoco, che se non creasse palpabili disagi pratici, potrebbe dirsi a buona ragione un incubo, un’abbagliante allucinazione. Scrive Kafka: “…a farla breve non aveva più scelta, se accettare il processo o ricusarlo: ci stava dentro fino al collo e si doveva difendere. Se era stanco, pazienza”.
Stamani, ad una riunione di lavoro, ho provato le stesse allucinanti sensazioni. Tre quarti d’ora, immersi a parlare di segmenti di borsa da migrare, piattaforme, orari di mercato. La certezza di trovarsi fuori dall’acqua, in un vaso senza significati. L’evidente e tangibile realtà di un mondo diverso, al quale apparterranno altri (chi, poi?), ma non certo io. La sensazione di ritrovarsi in un luogo alieno, benché comprensibile, in uno spazio innaturale, fantastico. E sullo sfondo, l’inverosimile consapevolezza che era tutto vero. Che non si trattava né di sogno, né di equivoco.
Nessun altra domanda, nessun altra risposta. Perché qua si parla di sensazioni, quindi di apparato irrazionale. Non si parla di motivi, scelte, opportunità, che appartengono alla sfera della ragione.
Continua Kafka: “…quello che è successo a me non è che un caso singolo, e neppure tanto importante, ma è indicativo di un modo di procedere che viene adottato ai danni di molti altri. Io qui difendo loro, non me stesso”.

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Delizie in Croazia

 

Non ho mai avuto particolari simpatie per la Croazia. Retrogrado, antiquato, conservatore, intollerante. Definitemi come volete, ma a me i Croati non piacciono proprio. Nutro meschinamente l’impressione che se non fosse per i forzieri di euro che i turisti portano, e riportano l’anno dopo, non esiterebbero a sgozzarti per strada, anche solo per qualche spicciolo. Li ho sempre visti diffidenti e sospettosi, profittatori e poco propensi a socializzare.
Ciò che attira della Croazia è fondamentalmente il mare. Limpidezza e trasparenza, in miriadi di calette e baie nascoste, dove gli scogli e le spiaggette di ciottoli si susseguono senza soluzione di continuità. Le isole compiacciono gli occhi. Ne ho viste solo due, ma completamente diverse l’una dall’altra.
Due anni fa Pag, brulla e lunare, con l’aria angusta della terra che soffre, sembrava approcciarsi con un carattere ruvido e suscettibile. Vecchia e canuta come le bianche pietre di cui è ricoperta e come i pizzi per la quale è famosa. Tranquilla e pacifica, come la baia acquitrinosa della sua città capoluogo.
Quest’anno Hvar, verde e rigogliosa, che trasmette al turista un’aurea di spensierata esuberanza. La sua città principale, carica di gente e di locali rumorosi, invita alla vita, al prepotente divertimento estivo. Porto intraprendente e affollato, che scandisce i ritmi della vacanza a colpi di yacht e vistosi tacchi a spillo.
Se la costa rimane invivibile, soffocata nel cappio stringente della cementificazione selvaggia, le isole isolano in un’altra dimensione, fatta di natura, mare e sole.
La nostra prima sosta è stata a Trogir, ad una quarantina di chilometri da Spalato. Gioiellino dell’architettura veneziana che merita sicuramente una visita. Uno storico dell’arte statunitense ed autorevole critico, la definì come una delle poche città al mondo che annovera tante opere d’arte in così poco spazio. Poi Spalato, dove il Palazzo di Diocleziano racchiude straordinariamente la città vecchia e dove non si può rimanere indifferenti di fronte al fascino delle mura e delle vestigia romane: strati di città accavallati gli uni sugli altri. Si sentono le epoche storiche spingersi l’una contro l’altra: è impressionante. Poi poco altro. La città sopporta il peso delle caotiche e soffocanti periferie dell’est, dove i palazzoni fitti e mastodontici smorzano ogni fantasia d’evasione.
Un paio d’ore per raggiungere l’isola di Hvar. Ci siamo stabiliti a Milna, manciata di case sul mare, a quattro chilometri dalla città di Hvar. Per godere appieno del mare, è preferibile trovare alloggio fuori dalla città, molto affollata e troppo a ridosso del porto.
Oltre alla bellissima e sorprendente città capoluogo, dominata dall’alto dalla sua fortezza, sono da visitare anche Stari Grad e Jelsa. Entrambe si scoprono abbarbicate attorno ai rispettivi porticcioli; meglio la prima della seconda.
Ottimo il pesce, anche se ormai i prezzi dei ristoranti si stanno livellando a quelli italiani. Difficile cavarsela con meno di 30 euro a scatola cranica. Vino bianco pessimo. Meglio la birra che, essendo fresca, va giù davvero “come un terrone a Natale”.
Insomma, vacanza da consigliare a chi vuole mare, buon pesce e nel complesso non desidera spendere una follia.

Per lo speciale “Buona forchetta all’estero”, i ristoranti che ho provato sono:
Fontana (Trogir, lungomare): 7,5. I migliori calamari fritti che io abbia mai assaggiato. Il consiglio veniva dalla guida Routard. Merita davvero.
Godra (Hvar, lasciandosi la chiesa della piazza principale alle spalle, si deve salire la gradinata della prima via a destra): 7. Ottima aragosta alla griglia, pessimi gli spaghetti allo scoglio. Giardinetto interno molto piacevole.
Palladini (Hvar, una delle vie parallele alla piazza, in alto nella parte settentrionale della città): 6. Eccellente filetto di manzo, ma il servizio non mi piace. Tutti antipatici. Non c’è la birra media.
Moli Onte (Milna, lungomare): 7,5. Tavoli vista mare, ambiente familiare e il cuoco griglia il pesce sotto gli occhi dei clienti. Aragosta da prendere.
Marinero (Hvar, alla fine della piazza, lasciandosi sempre la chiesa alle spalle, su una delle viuzze a destra): 4,5. Specchietto per le allodole e per la mia morosa, visto che io non volevo andarci. Bella la sistemazione nella piazzetta seminascosta, ma gestione troppo fast. Prezzi bassi e qualità ancor più bassa. Da starci alla larga.
Paradise Garten (Hvar, lasciandosi la chiesa della piazza principale alle spalle, si deve salire la gradinata della prima via a destra. È poco prima del Godra): 5. Consiglio non azzeccato della Routard. Definiva irrinunciabili gli spaghetti allo scoglio: sono rinunciabilissimi.
La Luna (Hvar, una delle vie parallele alla piazza, in alto nella parte settentrionale della città, di fronte al Palladini): 8. Alla buona qualità si abbinano prezzi tutto sommato modici. Risotto ai frutti di mare tra i migliori che abbia mai assaggiato, meglio di quello di Gino a Duino. Da provare il piatto tipico di Hvar, la Gregada, ovvero pezzi di pesce vario, cotti in pentola con cipolle, patate e olio d’oliva. Anticamente era un piatto di recupero, dove finivano un po’ tutti i rimasugli. Cortiletto sopra l’edificio molto romantico e suggestivo.
Villa Samar (Trogir, porticciolo verso nord a 3-4 km dal centro storico): 4. Semplicemente pessimo, ma non c’era altro lì intorno.

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Auguri

Solo perchè non entriate qua e rimaniate schifati dai miei soliti algoritmi politici, inserisco questo breve post… BUON NATALE!
Nessuna elucubrazione sul significato della festa o sul senso della vita. Auguri a tutti e… fate i bravi, mi raccomando.

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