La bomboniera tra le colline

Non lo può certo sapere
questa foglia dell’ulivo
il nome di quel vento
che la vuole far cadere.
Ma io so sarà lo stesso
che soffierà il mio cuore
in quel luogo dietro i luoghi
dove non basterà il mare

(D. Van De Sfroos, Dove non basta il mare)

In una delle solite scorribande tra le colline moreniche, ho scoperto l’ennesimo e sorprendente luogo sconosciuto. Una di quelle scenografie create centinaia d’anni fa, poco fuori dall’uscio di casa, rimaste per me inesplorate ed ignote fino ad oggi. Con grande sorpresa, sto scoprendo che nei dintorni ci sono molti luoghi ignoti o semplicemente dimenticati, che meritano almeno l’onore di una visita. Parlo di piccole borgate, di edicole votive, di pievi, di carrarecce panoramiche.

A qualche chilometro da casa, sulla cima di una collina chiamata Monte Oliveto e di fianco ad un maestoso palazzo, c’è una piccola pieve denominata Oratorio San Giuseppe. Le prime notizie risalgono al 1713. Un’edilizia semplice: un piccolo portico a colonne, un tabernacolo in marmo rosso di Verona, una tela della Sacra Famiglia. Una piccola bomboniera tra i silenzi dei bagolari secolari, che sorprende piacevolmente l’ignaro viandante.

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Collezione di serie A

 

Ho una vasta collezione di conchiglie, che tengo sparse per le spiagge di tutto il mondo
(S. Wright)

Ciascuno di noi, almeno una volta da bambino, ha sognato di giocare realmente in serie A. I primi calci nel campetto sterrato delle elementari, le prime partite in tv, le prime divise ufficiali negli esordienti… Il bello di essere piccoli è che non ci si vergogna di sognare l’insognabile e dunque appare più che lecito fantasticare sul magico e affascinante mondo del pallone.

Poi si cresce e si concretizza, capendo velocemente che i sogni sono un’illusione, mentre la realtà è ben altro affare. All’improvviso la serie A non è più un sogno: diventa un mondo lontano e impossibile, seppur contornato da un alone mitico e da una seduzione metafisica.

Ma tornando al sogno di giocare in serie A, una delle mie suggestioni più ricorrenti è sempre stata quella di collezionare le maglie degli avversari. Non fantasticavo di esordire a San Siro, di segnare contro la Juve o di vincere lo scudetto. Piuttosto, mi ha sempre intrigato quel nobile gesto di galateo agonistico, quel segnale di deposizione delle armi, quel cenno di pace fatta: lo scambio della maglia. Ho sempre fantasticato su una collezione di magliette di tutte le squadre e di tutti gli avversari più blasonati.

L’altro giorno ho scoperto sui social la strepitosa collezione di maglie di Spalletti. Non solo eroi del calcio mondiale, ma anche e soprattutto umili gregari. Campioni del calcio accanto a comparse anonime. Se ha un senso arrivare a quei livelli, per me è proprio su quello scaffale.

Collezione

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Civetteria

E c’era quel pianto di morte…

chiù…

(G. Pascoli, L’assiuolo)

 

Da qualche notte, nei pressi di casa mia si sente l’insistente squittio di una civetta. Nei momenti che precedono il sonno, sentire la cadenza ritmata del suo verso mi riconduce ad una dimensione quasi ancestrale. Mi porta immediatamente al ricordo di mio nonno, che la reputava severamente annunciatrice di morte. Nella tradizione o superstizione contadina, la civetta è considerata infatti ambasciatrice di sventura: sentirne il verso nei pressi della propria abitazione equivale al presagio di un imminente lutto in famiglia.

Una reputazione che arriva da lontano e che affonda le proprie origini centinaia di anni fa. Con il Cristianesimo si diffusero le prime veglie notturne per i defunti. Durante le veglie, le luci delle candele o delle lanterne attiravano gli insetti notturni e con essi i rispettivi rapaci a caccia di cibo. L’associazione tra il defunto e lo squittio di gufi e civette fu automatica: laddove cantava una civetta doveva per forza esserci un morto, una sventura.

Una nomea che è resistita più o meno fino ai giorni nostri.

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La fama che precede

Un buon nome, come la buona volontà, si ottiene con molte azioni e si perde con una
(L.F. Jeffrey)

La fama di chi mi precede, mi precede. In questo periodo mi sento un po’ come agli inizi si sentirono probabilmente Paolo Maldini, Alberto Angela, o Alexandre Dumas figlio. Senza identità propria, derivate immagini di chi li anticipava per genealogia e ingombro scenico.

Ho fatto alcuni ordini telefonici per la spesa a domicilio, specificando nome e recapiti personali. Niente da fare… Per tutti il mio tratto identificativo rimane “il figlio della Luciana”. Ecco cosa ho trovato sui biglietti dentro la spesa.

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La sfida nella sfiga

Le sfide nella vita ti aiutano a scoprire chi sei

(B. J. Reagon)

Una volta eravamo un popolo di allenatori di calcio. Poi col tempo ci siamo evoluti, passando da sismologi e costituzionalisti a virologi ed economisti, con una velocità impressionante. La vicenda degli arresti domiciliari imposti dal Covid-19, infine, ci ha trasformato tutti quanti in esperti sociologi. Sappiamo esattamente come funziona il mondo e prevediamo alla perfezione la direzione che prenderà la società negli anni futuri. È unanime la sentenza secondo cui “questa esperienza cambierà per sempre la nostra esistenza”.

La sfida della quarantena, o comunque del virus in generale, racchiude in sé una miriade di altre sfide intrinseche. L’arrivo di difficoltà economiche, il cambiamento di abitudini, la trasformazione dei nostri rapporti sociali e… molto altro ancora. Sfide nella sfida, o sfide nella sfiga, a seconda dei punti di vista.

Pensando al nostro piccolo paesello di provincia, mi incuriosisce scommettere sulla crescita delle consegne a domicilio. Settemila anime abituate da sempre a recarsi nei negozi, senza nessuno esercizio che effettui recapiti a casa. La prima ed unica pizzeria con consegna espressa a Volta Mantovana ha giusto un paio d’anni. Prima di essa, il nulla assoluto.

In questi giorni abbiamo giocoforza assistito all’evoluzione delle specie “negozio”: per necessità i ristoranti e gli alimentari si sono reinventati fattorini e pony express. Ma si tratta di un fuoco di paglia, necessario a tamponare l’emergenza di qualche mese, o di una vera e propria riorganizzazione dei servizi? La risposta sta evidentemente nella durata dell’isolamento.

Per il nostro paese rimane comunque un duello intrigante, tra l’evoluzione di un intero settore commerciale e la sua definitiva condanna al provincialismo.

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La brasadèla

Se piöf sö l’ulièla, gh’è ‘l sul sö la brasadèla

(Proverbio popolare voltese)

La saggezza popolare voltese, che affonda ovviamente le proprie radici nella tradizione contadina, è zeppa e foriera di riferimenti meteorologici legati ai mesi e alle stagioni.

Se piöf sö l’ulièla, gh’è ‘l sul sö la brasadèla” significa che se piove la domenica delle Palme (ulièla, cioè domenica degli ulivi), ci sarà il sole a Pasqua. La brasadèla è la metonimia che indica la domenica di Pasqua. Si tratta infatti della tipica ciambella pasquale, diffusa in tutta l’Italia settentrionale soprattutto in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. La brasadèla o braşadèla è una semplice torta col buco, che veniva preparata con pochi ingredienti durante la Pasqua, quando erano terminate le scorte di mele, noci e castagne stivate per l’inverno. A dispetto del motto, in questo periodo di quarantena solare, anche la domenica delle Palme è stata meteorologicamente soleggiata.

A proposito di quarantena e tradizione locale, mi è sembrato divertente il tentativo culinario di questo zelante aspirante cuoco, che ha proposto la sua versione naif di brasadèla.

Brasadela

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Il ballo in maschera

Il ballo in maschera… finisce qui

(C. Caselli, Il carnevale)

Sono arrivate le mascherine anche a me, ringrazio pubblicamente” è la frase cool della settimana. Sarà sostituita a breve (ma non ne sono sicuro) da “Auguri, Buona Pasqua!” – “Grazie, altrettanto!”.

È giusto. Una comunità che in un periodo di emergenza riesce ad autorganizzarsi e a reperire risorse, creare, distribuire aiuti a sé stessa, rappresenta il valore più alto per un paese in difficoltà. È giusto concedere il meritato plauso a chi ha offerto i materiali, a chi ha realizzato le mascherine, a chi le ha distribuite e a chi dall’alto ha coordinato l’intera ed efficiente operazione. Centinaia di messaggi social tutti uguali testimoniano questo desiderio di riconoscenza, forse esagerato, forse sproporzionato, certamente sincero.

Nelle ultime ore sobbolle una piccola polemica tra un’azienda, che rivendica o millanta un’esclusività sul confezionamento delle suddette maschere e definisce “fuori norma” quelle distribuite dal Comune, e l’Amministrazione che accusa la stessa azienda di aver ricevuto materiale gratis senza realizzare alcun prodotto in cambio.

Non oso entrare nel merito di questioni che ignoro e che intendo ignorare a lungo. Sarebbe solo utile sapere se effettivamente le mascherine distribuite rispettano le disposizioni normative. Aggiungo che se l’ordinanza di Fontana consente in alternativa anche l’utilizzo di sciarpe e foulard, la certificazione delle mascherine lascia il tempo che trova. Auguri a tutti, Buona Pasqua!

 Font

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M.

Non è il morire che ci spaventa, è questo non vivere che ci esaspera

(A. Scurati, M. Il figlio del secolo)

Solitamente non consiglio libri a nessuno.

I libri, un po’ come le cravatte, si basano esclusivamente sui gusti personali e sullo stato d’animo del momento. Non esistono libri o cravatte adatti a tutti. Non esistono libri o cravatte che possano prescindere dalle situazioni o dai momenti della vita.

Poi suggerire i libri è un po’ come raccontare i propri viaggi al ritorno: lo si fa più per un piacere personale, che per l’interesse del destinatario. E quando avviene ciò, non è più un consiglio ma una contraddizione.

Il lettore serio sa già da solo, più di chiunque altro, cosa vorrebbe leggere. Non ha bisogno di raccomandazioni, al massimo può chiedere mirate e guidate indicazioni.

Dicevo che solitamente non consiglio libri a nessuno, tuttavia suggerisco agli amanti della storia e della politica la lettura di M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati. Una narrazione storica atipica, che ripercorre il periodo 1919-1925, per spiegare e raccontare l’ascesa del Fascismo. Un romanzo senza dialoghi, che racconta il contesto storico e sociale di quegli anni, i silenzi e le omissioni dell’opinione pubblica nonché le negligenze del Parlamento che consentirono l’avvento della storia più buia. Non credo al ritorno del Fascismo, ma le analogie con i tempi attuali sono effettivamente sconcertanti.

Avevo grossi dubbi su questo libro, a causa di errori storici rilevati da Ernesto Galli Della Loggia. Devo riconoscere che per il mio livello di conoscenza, tali sviste appaiono irrilevanti. Ad esempio Scurati attribuisce erroneamente a Carducci, anziché a Pascoli, l’espressione coniata per l’Italia “la grande proletaria”, oppure sbaglia la data di una lettera di Francesco De Sanctis. Sbagli accettabili, almeno per un profano come me, semplicemente in cerca di una piacevole lettura.

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Caccia all’untore

Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi

(A. Manzoni, I promessi sposi – cap. XXXII)

 

Alla fine è arrivato. Il decreto che vieta l’attività motoria all’aperto è stato firmato a furor di popolo, tra ali di folla ringhiante e applausi a scena aperta.

Da oggi chi volesse fare una breve corsetta all’aperto, un giro in bicicletta all’alba, una semplice camminata in solitaria tra le desolate capezzagne di campagna… non potrà più farlo. Questo provvedimento risponde essenzialmente a due sentimenti di pancia ben precisi.

Il primo impulso è quello che potremmo definire dell’”incapacità”. Poiché le autorità e le istituzioni sono incapaci di controllare nel dettaglio le attività motorie, poiché risulta impegnativo discernere le attività ammesse (ad esempio quando il soggetto è da solo) dalle attività non ammesse (ad esempio quando il soggetto è in gruppo), allora si semplifica il lavoro precludendo tout court qualsiasi movimento all’aperto. Che sarebbe come dire: è reato guidare in stato di ebbrezza, ma siccome risulta oneroso stabilire quali bevande contengono alcool (cioè vietare vino, birra e liquori), allora impediamo semplicemente che tutti bevano, proibendo financo di dissetarsi con l’acqua di pura fonte.

Si tratta evidentemente di una forzatura miope, che bene evidenzia i limiti di chi governa ed amministra questa materia.

Il secondo impulso è quello del “ricercato”. Da sempre la società necessita di trovare un colpevole per scaricare le tensioni di una situazione complicata, di una rovente matassa che da sola non si sbroglia. Il responsabile è stato talvolta il cinese, talvolta l’immigrato, talvolta il tecnocrate europeo. Oggi i colpevoli sonno i runner, i biker, i camminatori seriali. Non importa cosa fanno e dove lo fanno. Importa maggiormente impedire che lo facciano, perché il divieto “sicuramente male non fa”. La gente recita a memoria l’orazione “#iorestoacasa”, come una vecchia e sorda litania, come il deferente pappagallo di Portobello, senza chiedersi il significato della questione, senza applicare il buonsenso nel discriminare cosa è bene da cosa è male. Lo slogan è semplice, perché complicarlo e domandarsi cosa significhi davvero? Resta a casa! Puoi essere un cardiopatico bisognoso di passeggiare da solo nel bosco, ma non importa. Resta a casa! Se non lo fai devi sentirti un assassino.

La ricerca sistematica del colpevole, anche per il terreno pestilenziale su cui si svolge la battuta venatoria, ricorda la caccia agli untori di manzoniana memoria.

E nel contorno di questo illogico marasma, per migliorare la respirazione di tutti restano aperte molte fabbriche, parecchi uffici e tutti i tabaccai.

untore

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Lo staffolo della Colombara

Il viandante che, percorrendo la zona, avesse osservato questi suoi visitatori,

si sarebbe sentito in diretta comunicazione con regioni ignote all’uomo

(T. Hardy, La brughiera)

Recentemente è stata ristrutturata la chiesetta che segna la fine di Viale Risorgimento e l’inizio della Strada Volta Valeggio. Si tratta di uno dei tanti staffoli, che segnano le principali direttrici d’entrata al nostro paese.

Gli staffoli (dal longobardo “staffil” o “staffa“) erano piccole ed elementari costruzioni che fungevano da palo di confine, o da segnale d’incrocio di strade. Col tempo vennero sostituite da edicole votive, tempietti o piccole chiesette. Nelle costruzioni più complesse, per viandanti e cavalieri era consentito fare sosta durante il viaggio. Talvolta era possibile sostituire il cavallo, effettuando il cambio della staffa.

La chiesetta in questione risale alla seconda metà dell’800. In una vecchia mappa del territorio voltese è chiamata Cappella Fojada ed è collocata nella località Colombara. Non è dedicata ad alcun santo in particolare e contiene un’unica e generica iscrizione: “Ave Maria”.

Le poche informazioni su questo staffolo sono raccolte nel libro di Romana Franzini “Volta Mantovana. Storia, arte, natura e tradizione”.

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