Kafkiane percezioni


Periodo particolare questo, in cui mi sovviene spontaneo descrivere sensazioni strane.
Avete mai letto Il processo di Kafka? È la storia di un uomo che si sveglia dall’oggi al domani imputato in un processo, senza saperne il motivo. Si ritrova improvvisamente in un vortice privo di senso, costretto a difendersi da accuse che non conosce, obbligato a parlare davanti a relatori che non esistono, forzato a spiegare circostanze che non ci sono. Una dimensione inverosimile, somigliante ad un enorme equivoco, che se non creasse palpabili disagi pratici, potrebbe dirsi a buona ragione un incubo, un’abbagliante allucinazione. Scrive Kafka: “…a farla breve non aveva più scelta, se accettare il processo o ricusarlo: ci stava dentro fino al collo e si doveva difendere. Se era stanco, pazienza”.
Stamani, ad una riunione di lavoro, ho provato le stesse allucinanti sensazioni. Tre quarti d’ora, immersi a parlare di segmenti di borsa da migrare, piattaforme, orari di mercato. La certezza di trovarsi fuori dall’acqua, in un vaso senza significati. L’evidente e tangibile realtà di un mondo diverso, al quale apparterranno altri (chi, poi?), ma non certo io. La sensazione di ritrovarsi in un luogo alieno, benché comprensibile, in uno spazio innaturale, fantastico. E sullo sfondo, l’inverosimile consapevolezza che era tutto vero. Che non si trattava né di sogno, né di equivoco.
Nessun altra domanda, nessun altra risposta. Perché qua si parla di sensazioni, quindi di apparato irrazionale. Non si parla di motivi, scelte, opportunità, che appartengono alla sfera della ragione.
Continua Kafka: “…quello che è successo a me non è che un caso singolo, e neppure tanto importante, ma è indicativo di un modo di procedere che viene adottato ai danni di molti altri. Io qui difendo loro, non me stesso”.

  1. #1 by Erica at 27 agosto 2008

    Brutta sensazione: sentirsi imprigionato nella propria vita.
    A volte capita di staccarsi dalla realtà e di guardare la stessa con occhi diversi, come l’anima che abbandona il corpo e osserva dall’alto il mondo a cui apparteneva.
    Sono momenti rari, di una lucidità disarmante.

    Il parallelismo con “Il processo” di Kafka è davvero azzeccato. Descrive bene la sensazione di inadeguatezza, di disagio, di sconcerto… C’è però una sostanziale differenza. Mentre nel romanzo il protagonista si ritrova, suo malgrado, in una situazione assurda, senza aver compiuto alcuna scelta che possa in qualche modo giustificarla, noi, siamo il frutto delle nostre decisioni.
    Siamo quello che abbiamo scelto di essere.
    Sicuramente ci sono in gioco un sacco di variabili alcune delle quali con un peso importante, ma sono convinta che in fondo siamo quello che abbiamo deciso di essere, almeno in questa parte del mondo. O, per assurdo, siamo quello che non abbiamo deciso di essere ma che ci siamo rassegnati ad essere. E’ comunque, anche in questo caso, una nostra scelta.

    Questi preziosi momenti di lucidità dovrebbero farci riflettere, dovrebbero aiutarci a trovare la forza e il coraggio per tentare di cambiare, per dare una svolta alla nostra vita. Passare, così, da una dimensione irrazionale fatta di sensazioni, a una dimensione razionale fatta di decisioni con l’intento di realizzarsi, di esprimersi al meglio.

  2. #2 by Gianluca at 27 agosto 2008

    Sottoscrivo ogni parola di Erica.
    Condivido tutto.

  3. #3 by admin at 27 agosto 2008

    E qua si apre la voragine del dibattito su quanto scegliamo della nostra vita e quanto invece subiamo dagli eventi che scelgono per noi. Probabilmente avete ragione: la non scelta alla fin fine è una scelta. La conclusione però è che se si accetta una “non scelta” che non soddisfa, o si è vili o non ci sono altre scelte migliori. Tertium non datur.

  4. #4 by paio at 11 settembre 2008

    e allora questa voragine?
    la riempiamo?

    io comunque sono in disaccordo quasi totale con Erica e il Gian

(non verrà pubblicata)

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