Sotto la banca la capra canta


Ognuno ha la faccia che ha, ma qualche volta si esagera

(Totò)

A proposito del video della filiale Intesa San Paolo di Castiglione, divenuto ormai virale sui social, ho letto diverse opinioni di commentatori “ufficiali”. Blasonati blogger e giornalisti tuttologi sembrano concordare sulla crudeltà del sistema, che con grande facilità schernisce e mette alla gogna mediatica le persone socialmente più deboli ed indifese. Leoni da tastiera, protetti da un universo senza regole, subito pronti ad infierire con gli agnelli più deboli ed indifesi della catena dell’internet.

Non sono d’accordo. La trovo un’analisi superficiale, populista ed ipocrita. Balle da morale spiccia, che liquida i problemi senza cercare di capirli.

È vero, nella specifica vicenda una ripresa destinata ad un contest aziendale è finita fraudolentemente nell’universo senza confini di Facebook. Non c’è dubbio che il dipendente che l’ha criminalmente diffusa pagherà giustamente il conto più alto: nella migliore delle ipotesi rassegnerà spontaneamente le dimissioni o sarà trasferito in qualche magazzino della Barbagia. Però ci sono due aspetti fondamentali su cui è doveroso riflettere. Il primo riguarda il principio di responsabilità che coinvolge sempre chi intraprende scientemente con volontà un’azione. È il titolo stesso della registrazione a spiegarlo: “Ci metto la faccia”. Chi, seppur su invito altrui, decide di ideare e girare un video destinato ad una visione collettiva, ma non si rende conto dell’imbarazzante e comico livello di recitazione, ne paga le inevitabili conseguenze. Chi è causa del suo mal, pianga prima di tutto i propri limiti e le proprie inettitudini, non il pubblico ludibrio che ne scaturisce. Prendersela con chi ha canzonato il patetico video non ha senso. La società purtroppo attua una spietata selezione naturale, senza regali e senza carità. La squadra che decide di attuare la tattica del fuorigioco e non si rende conto di non saperla fare, prende gol per colpa sua. A poco serve lamentare la crudeltà della regola o la fortuna dell’avversario. Se mi chiedono di cucinare qualcosa ed io mi arrischio a preparare una Saint Honoré disgustosa, la colpa è unicamente mia perché ho azzardato oltre le mie capacità e al di fuori delle mie conoscenze. Non potrò accanirmi contro la qualità degli ingredienti o l’inadeguatezza degli attrezzi a disposizione.

La seconda riflessione va fatta sull’attuale mondo del lavoro, in particolare sull’intero settore dei servizi. Da molti anni ormai i dipendenti sono chiamati a compiti che esulano dai motivi, dalle capacità e dalle qualifiche per cui sono stati assunti. Impiegati forzati ad improbabili organizzazioni di team building, venditori vessati da classifiche e obbligati alla circonvenzione dei loro stessi familiari, bancari costretti a rifilare televisori e telefoni per salvare i conti della filiale. È una moderna forma di schiavismo sulla quale le istituzioni (politica, sindacati, organi di settore) e l’opinione pubblica dovrebbero meditare più a lungo, senza annacquare il brodo con inutili apostrofi contro il cyberbullismo dei social.

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