La panacea sbagliata


Il reato di clandestinità di imminente introduzione non può essere il rimedio a tutti i mali.
Il principio, secondo cui penalizzando questo status si elimineranno i problemi della sicurezza, scricchiola nelle premesse.
Al di là dei dogmi etici che vedono nella teoria dell’accoglienza un caposaldo di civiltà, se si presuppone l’equivalenza, di per sé errata, del “meno clandestini, meno insicurezza”, allora sarebbe più efficace chiudere le frontiere agli irregolari prima, non incarcerarli dopo. Ma è fallace anche l’assioma secondo cui chi delinque è necessariamente un clandestino. In genere delinque chi non ha o non vuole un lavoro stabile e sufficiente, non tanto chi è clandestino tout court. Più che perseguire il clandestino, sarebbe più coerente, più semplice e più comprensibile perseguire chi commette i crimini.
I principi cardine, per avviare un approccio risolutivo al problema, sono essenzialmente due e da essi non si può prescindere. Vecchi, certo, ma sempre disattesi, dunque sempre attuali.
Il primo riguarda la ferrea penalizzazione di chi sfrutta i clandestini. Il grande bisogno di manovalanza e la forte domanda di lavoro, generano lavoro nero. Perché chi ha bisogno di manodopera a basso costo e chi è disposto a raccogliere qualsiasi proposta lavorativa si incontrano nell’unico punto di contatto: l’illegalità. Se si penalizzassero gli impresari banditeschi e si favorisse la regolarizzazione di chi lavora, raggiungeremmo contemporaneamente tre risultati. Verrebbero tutelati i diritti basilari dei lavoratori; imprenditore e salariato pagherebbero entrambi le giuste tasse nel bene della pubblica collettività; gli irregolari, cioè senza lavoro e senza casa, sarebbero di meno. E meno gente a spasso, significa oggettivamente meno criminalità.
Il secondo principio irrinunciabile risiede nella certezza della pena. Se chi commette crimini rimane impunito, giocoforza continuerà a delinquere e legittimerà gli altri a fare altrettanto. Oltre a ciò, per quanto impopolare, non è indecoroso pensare ad investire ulteriormente nell’edilizia carceraria. È inutile stipare ad libitum i condannati in centri di permanenza temporanea o fare gli indulti perché le carceri sono piene.
In questa opera di sburocratizzazione e potenziamento della “macchina giustizia” vanno investiti i danari.

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