Ma qual Avatar?
Andate a vedervi il film italiano “La prima cosa bella”. Due ore che scivolano veloci, con una storia tutto sommato ordinaria, ma asciutta e carica di passioni. Il solito Virzì, con qualche sbavatura cronologica (non tutti gli attori sono azzeccati), ma con tantissima carica emotiva. Anche un’ottima fotografia. E poi una colonna sonora da Oscar: su tutte, la canzone Eternità dei Camaleonti. Spesso le cose semplici sono le migliori.
Beato Craxi
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia”.
(Vangelo di Matteo 5,3-11)
Mi sono riletto le beatitudini e non ho trovato alcun cavillo legale pensato dal solerte evangelista, in grado di giustificare la beatificazione di Craxi. In un attacco di Alzheimerpoliticallycorrect, anche Napolitano ha cercato la via del revisionismo e dell’assoluzione postuma. Demenza senile? Non credo. Se si tratti di un buonismo diffuso o di una misera cecità è difficile dirlo.
Craxi grande statista, ovvio. Uno che trascorre metà della sua vita in politica, nel bene o nel male è sempre un grande statista. È questo un merito? Può darsi, anche se io credo di no. Il fatto poi che abbia pagato più di altri le pecche della malapolitica, non significa affatto che sia innocente e che vada assolto. Per uniformare colpe e punizioni, andrebbero puniti gli altri, non riabilitato lui.
“Beati gli ultimi, se i primi sono onesti”. Forse è questo il grande equivoco che ha dato origine alla beatificazione in corso.
Quel che rimane di ciò che se ne va
Posted by Giullare in Cose di paese on 18 gennaio 2010
“C’è il vestito da sera che mettevi per me,
delle scarpe di tela consumate dal sole,
tra le cose che hai dimenticato qui.
C’è un giornale che ho letto, le candele di cera,
tra le cose che non hai portato via;
il mio primo biglietto, quella tua canottiera,
tra le cose che mi fanno compagnia.
E’ incredibile pensare a come a volte si nascondono,
poi saltano fuori quando non le cerchi più;
sono come le persone, come noi, sono fatte come siamo fatti noi.
E il vento trasporta memorie, sconfitte vestite da grandi vittorie.
E il vento riporta alla luce certi segni sulla pelle che non cambieranno mai,
sulle deboli persone come noi, sulle povere persone come noi”.
(E. Ruggeri – Oggetti smarriti)
Un weekend di grande manovre, quello appena passato. La necessità di sgombrare buona parte della mia casa, mi ha spinto a fare i conti con una miriade di cianfrusaglie polverose. Un vecchio granaio, dove per generazioni la mia famiglia ha posato le cose che non servivano più, ma che non si volevano buttare (“non si sa mai, se un domani…”). Vecchie armi del tempo, diligentemente deposte di fronte all’incedere impietoso delle epoche. Specchio di una cultura fondata sul risparmio e sul rispetto, del denaro prima, e delle cose poi. Non si gettava nulla, perché ogni oggetto acquistato era frutto del sacrificio e del sudore dei nostri avi.
So per esperienza che apprestandomi allo sgombro avrei osservato attentamente ogni oggetto, soppensandolo e chiedendo informazioni sulla sua storia, ripulendolo e fantasticando, ripensandolo nell’uso moderno ed inventandone un nuovo utilizzo. Così facendo avrei inevitabilmente disatteso il compito primo: svuotare l’ampia soffitta. Con la morte nel cuore dunque, ho iniziato col darmi due regole basilari. La prima: chiudere gli occhi e gettare tutto. La seconda: di fronte a dubbi o rimorsi, impormi che tutto scorre e che è giusto guardare avanti, non solo indietro. Considerazioni razionali, per superare le difficoltà, mica ci credo davvero…
E così ho fatto, di fronte a tutto. Vecchi mobili mischiati a materassi di paglia, ma anche tante scarpe, doviziosamente riposte nelle relative scatole demodé, e vestitini da bambino del dopoguerra. Molti libri, appartenuti agli zii che studiavano, ma anche tanti quaderni delle elementari e giochi di legno. In uno scatolone, le macchinine e i soldatini della mia infanzia, la pista delle auto e quelle lattine, nascoste dalla mamma per boicottare una collezione ormai traboccante.
Il rifugio della fanciullezza, dove scappavo per trovare pace e poesia ora è un grande spazio vuoto. Il ricettacolo dei miei piccoli sogni, dove fantasticavo frugando tra le cianfrusaglie e trovando ogni volta qualche chincaglieria nuova, ora è un anonima soffitta con le travi a vista. Il pathos suscitato dalle scritte sui muri, realizzate dai militari nascosti durante il primo conflitto mondiale, oggi è un ricordo svanito.
Perché tutto scorre… ma quanto è difficile rinunciarci.
L'identità di Ferrara
Ferrara, recita wikipedia, è una città dell’Emilia-Romagna, situata nella bassa pianura emiliana, sulle sponde del Po di Volano. Ferrara gode di un importante periodo aureo quando nel basso Medioevo e nel Rinascimento sotto il governo della famiglia degli Este viene trasformata in un centro artistico di grande importanza non solo italiano ma anche europeo.
Ma Ferrara, recitano le cronache sportive degli ultimi tempi, è anche un giovane e sfortunato allenatore, che non gode affatto di un periodo aureo e che è bel lungi dal trovare fama in Italia e in Europa.
Ferrara, la città, suscita ammirazione di primo acchito, fascino in seconda istanza. Ferrara, l’allenatore, accende anzitutto genuina simpatia, ma poi stimola alla cristiana compassione e quasi all’imbarazzo, quando lo si vede combattere tra le insidiose forche di un pianeta calcio troppo grande per lui. Scarso, forse, e certamente poco fortunato.
Nessun augurio per lui (con quello che guadagna, vorrei averli io i suoi problemi), ma solo la speranza di capire se si tratta di una marionetta, di un cialtrone o semplicemente di uno sciagurato innocente.
Dalla Manifestazione alla fiera
Epifania significa Manifestazione.
Ieri, trovandomi a Roma, ho percorso quei solchi di piazza Navona che tagliano le folle di gente e che raggiungono il massimo della celebrità proprio nella data del 6 gennaio.
Tra le fontane del Bernini e l’arte di Borromini, la meravigliosa piazza ospita sfacciatamente centinaia di bancarelle. Dalle frittelle fritte dei pakistani ai peluche made in china. Dalle caramelle multicolor ai trionfi della plastica.
Non ho visto alcuna tipicità del luogo, non c’erano prodotti enogastromici esclusivi e neppure l’artigianato locale. Solo chincaglierie dozzinali e tanta asiaticità.
Né più né meno delle bancarelle del Te per Sant’Anselmo o di quelle di Santa Lucia a Verona, intendiamoci. Fossi un sindaco, emanerei un’ordinanza che vincola la qualità dei prodotti esposti e che restringe le tipologie di merce in mostra, facendo riferimento alle peculiarità del territorio.
Così l’Epifania da Manifestazione è diventata una fiera.
Se il buongiorno si vede dal panino
Annuntio vobis gaudium magnum (o “gaudium magnandi”, nel senso di gioia del mangiare). Non c’è bisogno di chiarire all’intelligenza dei lettori di questo blog, che il gaudio è in realtà un angosciato eufemismo.
Ieri, spinto dalle necessità e trascinato da un’orda di barbari colleghi, sono tornato al McDonald. Mancavo esattamente da dieci anni, da quando nel lontano 2000 alcuni amici mi trascinarono a trascorrere la fine di un inconcludente sabato notte tra hamburger, patatine alla colza e pane al poliuretano espanso.
Tu quoque Silvio… ebbene sì! Mi vergogno di me stesso e dalla mia forza volontà che non ha saputo imporsi e ribellarsi.
Lancio il Sassello (ma non nascondo la mano)
Posted by Giullare in Cose di paese on 30 dicembre 2009
“credo che meriti di più
ma intanto son qua io
e ti offro di ballarci su”
(L. Ligabue – Urlando contro il cielo)
Uno dei propositi per il nuovo anno sarà la presentazione di un’istanza per Sassello. Chiedo semplicemente di valutare interventi migliorativi alla situazione urbanistica della via più bella del paese.
Chi volesse sposare la mia causa (non costa niente) può firmare il modulo allegato di seguito e consegnarlo al sottoscritto.
Il martirio di Santo Stefano
Posted by Giullare in Cose di paese on 26 dicembre 2009
“Saulo era fra coloro che approvarono la sua uccisione. In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme e tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samarìa. Persone pie seppellirono Stefano e fecero un grande lutto per lui.”
(Atti degli Apostoli 8, 1-2)
Buon Natale?
Odio le mail estese ed impersonali che mi augurano Buon Natale. Così come odio gli sms stile “inoltra a tutti” che mi inondano il 25 dicembre ed il 1 gennaio. Riflettendo sull’inutilità del 90% degli auguri di Natale, ho riscovato questo racconto di Dino Buzzati.
Nel paradiso degli animali l’anima del somarello chiese all’anima del bue:- Ti ricordi per caso quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna e là, nella mangiatoia…?
– Lasciami pensare… Ma sì – rispose il bue. – Nella mangiatoia, se ben ricordo, c’era un bambino appena nato.
– Bravo. E da allora sapresti immaginare quanti anni sono passati? – Eh no, figurati. Con la memoria da bue che mi ritrovo.
– Millenovecentosettanta, esattamente.
– Accidenti!
– E a proposito, lo sai chi era quel bambino?
– Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio, se non sbaglio. Certo, era un bellissimo bambino.
L’asinello sussurrò qualche cosa in un orecchio al bue.
Ma no! – fece costui – Sul serio? Vorrai scherzare spero.
– La verità. Lo giuro. Del resto io l’avevo capito subito…
– Io no – confessò il bue – Si vede che tu sei più intelligente. A me non aveva neppure sfiorato il sospetto. Benché, certo, a vedersi, era un fantolino straordinario.
– Bene, da allora gli uomini ogni hanno fanno grande festa per l’anniversario della nascita. Per loro è la giornata più bella. Tu li vedessi. È il tempo della serenità, della dolcezza, del riposo dell’animo, della pace, delle gioie famigliari, del volersi bene. Perfino i manigoldi diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, mi viene un’idea. Già che siamo in argomento, perché non andiamo a dare un’occhiata?
– Dove?
– Giù sulla terra, no!
– Ci sei già stato?
– Ogni anno, o quasi, faccio una scappata. Ho un lasciapassare speciale. Te lo puoi fare dare anche tu. Dopotutto, qualche piccola benemerenza possiamo vantarla, noi due.
– Per via di aver scaldato il bimbo col fiato?
– Su, vieni, se non vuoi perdere il meglio. Oggi è la Vigilia.
– E il lasciapassare per me?
– Ho un cugino all’ufficio passaporti.
Il lasciapassare fu concesso. Partirono. Lievi lievi, come mammiferi disincarnati. Planarono sulla terra, adocchiarono un lume; vi puntarono sopra. Il lume era una grandissima città. Ed ecco il somarello e il bue aggirarsi per le vie del centro. Trattandosi di spiriti, automobili e tram gli passavano attraverso senza danno, e alla loro volta le due bestie passavano attraverso i muri come se fossero fatti d’aria. Così potevano vedere bene tutto quanto.
Era uno spettacolo impressionante, mille lumi, le vetrine, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili, e il vertiginoso formicolio della gente che andava e veniva, entrava e usciva, tutti carichi di pacchi e pacchetti, con un’espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti. Il somarello sembrava divertito. Il bue si guardava intorno con spavento.
– Senti, amico: mi avevi detto che mi portavi a vedere il Natale. Ma devi esserti sbagliato. Qui stanno facendo la guerra.
– Ma non vedi come sono tutti contenti?
– Contenti? A me sembrano dei pazzi.
– Perché tu sei un provinciale, caro il mio bue. Tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi.
Per togliersi da quella confusione, il bue, valendosi della sua natura di spirito, fece una svolazzatina e si fermò a curiosare a una finestra del decimo piano. E l’asinello, gentilmente, dietro.
Videro una stanza riccamente ammobiliata e nella stanza, seduta ad un tavolo, una signora molto preoccupata.
Alla sua sinistra, sul tavolo, un cumulo alto mezzo metro di carte e cartoncini colorati, alla sua destra una pila di cartoncini bianchi. Con l’evidente assillo di non perdere un minuto, la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati lo esaminava un istante poi consultava grossi volumi, subito scriveva su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta quindi prendeva dal mucchio di destra un altro cartoncino e ricominciava la manovra. Quanto tempo ci vorrà a smaltirlo? La sciagurata ansimava.
– La pagheranno, bene, immagino, – fece il bue – per un lavoro simile.
– Sei ingenuo, amico mio. Questa è una signora ricchissima e della migliore società.
– E allora perché si sta massacrando così?
– Non si massacra. Sta rispondendo ai biglietti di auguri.
– Auguri? E a che cosa servono?
– Niente. Zero. Ma chissà come, gli uomini ne hanno una mania.
Si affacciarono, più in là, a un’altra finestra. Anche qui, gente che, trafelava, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore.
Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da una stanza all’altra portando spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi, altri scatole altri fiori altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione ansia fastidio confusione e una terribile fatica. Dappertutto lo stesso spettacolo. Andare e venire, comprare e impaccare spedire e ricevere imballare e sballare chiamare e rispondere e tutti correvano tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando.
– Mi avevi detto – osservò il bue – che era la festa della serenità, della pace.
– Già – rispose l’asinello. – Una volta infatti era così. Ma, cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi… Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali.
Il bue tese le orecchie.
Per le strade nei negozi negli uffici nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule buon Natale auguri auguri a lei grazie altrettanto auguri buon Natale. Un brusio che riempiva la città.
– Ma ci credono? – chiese il bue – Lo dicono sul serio? Vogliono davvero tanto bene al prossimo?
L’asinello tacque.
– E se ci ritirassimo un poco in disparte? – suggerì il bovino. – Ho ormai la testa che è un pallone… Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti?
– No, no. È semplicemente Natale.
– Ce n’è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c’era una pace, una soddisfazione. Come era diverso.
– E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena.
– E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano.
– Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano.
– E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle hanno una vita lunga.
– Ho idea di no – disse l’asino – c’è poca aria di stelle, qui. Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c’era un soffitto di caligine e di smog.
A proposito: Buon Natale a tutti!
Illusioni invernali
Posted by Giullare in Cose di paese on 21 dicembre 2009
Un po’ questa storia del P.G.T. mi ha intrippato. Non so perché, ma ultimamente Volta mi sembra un po’ più bella, un po’ più da tutelare. Mi illudo che siano arrivati gli strumenti per preservare il nostro patrimonio. Illusioni, ripeto.
Anche d’inverno, Volta mostra qualche piccola gioia.