Archive for category Sport

La via delle Bocchette

“Splendida! Forse la più bella ferrata dell’arco dolomitico”

(commento di un alpinista qualunque su www.vieferrate.it)

Finalmente.

Due splendide giornate d’agosto hanno coronato il sogno di percorrere una delle ferrate più belle delle Alpi: la via delle Bocchette sulle Dolomiti di Brenta.

Nella prima giornata, dopo aver lasciato l’auto a Vallesinella (mt 1500), abbiamo raggiunto il rifugio Brentei e da qui la via delle Bocchette Centrali (mt 2700). Il percorso, semplice nella sua architettura, regala panorami unici. Si è sempre a ridosso delle guglie dolomitiche, tra cengie esposte e ripide scale. Si passa ad un soffio dal Campanile Basso e la veduta sulle valli sottostanti non ha eguali. La ferrata è semplice e la percorriamo quasi tutta “in libera”, assicurandoci raramente al cavo d’acciaio. Il Rifugio Alimonta, ideale base d’appoggio per questo giro, è esaurito e dobbiamo ripiegare sul meno quotato Brentei, molto più in basso. La sera scivola comodamente tra salsicce con polenta e grappe all’asperula. La notte, nonostante le oltre sette ore di cammino, trascorre insonne. Complice l’altitudine e soprattutto i limitati comfort.

Ripartiamo di buon mattino dal Brentei (2100 mt) e alle 8 siamo già in direzione delle Bocchette Alte, che raggiungono i 3000 mt. Prima però c’è tempo per la ferrata Detassis, vertiginosa e tra le più impegnative della zona. Raggiungiamo le Alte dopo qualche sforzo di troppo perché il peso deli zaini inizia a farsi ingombrante. Ancora una volta ci aggiriamo tra guglie imponenti e pareti a picco, spigoli che strapiombano, paesaggi da cartolina e tante, tante scale. Sullo sfondo, il lago di Molveno appare piccolissimo. Scenari che lasciano esterrefatti. Quassù, almeno quassù, Dio sicuramente esiste.

La discesa dalla Bocca di Tuckett è un calvario, perché il ghiacciaio è ripido, non c’è traccia del sentiero e non abbiamo i ramponi. Ma è solo l’ultima odissea. Arriviamo alle auto dopo otto ore e mezza di tragitto. Siamo due stracci, ma la gioia dell’impresa compensa ogni sforzo. Ringrazio Simone Salvaterra, che ha accettato di venire sin quassù.

Pratico corridoio sulle “Centrali”

Due torrioni: Salvaterra a sinistra e il Campanile basso sulla destra

Spettacolare traverso sulle “Alte”

Passerella panoramica

Cengia esposta: il Salva è tra l’ombra e il sole

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Da Pirlo a pirla

“Il bello del rigore a cucchiaio è che se lo segni sei Pirlo,
se lo sbagli sei un pirla”

(M. Mari, in un recente post su Facebook)

Dice bene il Michele Mari. Ultimamente è di moda il “cucchiaio”, capace di emozionare in modi diversi il pubblico che assiste alla suspense del rigore. Come quello gelido e vincente di Pirlo o come quello clamorosamente goffo di Maicosuel, pochi giorni fa ad Udine.

Pochi sanno però che la regola del calcio di rigore, oltre al tiro diretto in porta, ammette anche il passaggio in avanti ad un compagno di squadra. Non se ne vedono mai, perché un’esecuzione del genere implica una grossa sincronia.

Però ne ho scovato uno eccezionale, che merita di essere rivisto anche a distanza di trent’anni.

1982, la partita è Ajax – Helmond Sport, del campionato olandese. Il grande Cruyff è sul dischetto pronto a calciare il rigore. Invece di tirare direttamente in porta, passa la palla all’accorrente Jesper Olsen che attira verso di sé il portiere dell’Helmond liberando lo specchio della porta. Olsen restituisce il pallone a Cruyff, che segna a porta vuota. Guardate qua:

incredibile-rigore-a-due-video.html

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A spasso sul Brenta

“Quanto monotona sarebbe la faccia della terra senza le montagne”

(I. Kant)

Altra bella gita, stavolta nel comprensorio delle Dolomiti di Brenta. Partenza da Andalo, dal maso Pegorar (1050mt) e arrivo alla Malga Spora (1854 mt). Il percorso si snoda tra un ripido bosco di larici secolari, una cengia esposta e panoramica e dei pascoli pianeggianti. Un’ottima escursione di media difficoltà, in luoghi non troppo frequentati.

Plauso alla mia assortita compagine che ha superato brillantemente la prova.

Convivio a Malga Spora

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Olandesi volanti

Sono un giocatore normale che ogni tanto fa cose eccezionali
(L’olandese M. Van Basten)

Nonostante l’asfissiante calura d’agosto, il vicino Baldo ha permesso ai miei cugini olandesi di conoscere la gioia della ferrata.

Partenza all’alba in direzione Avio, per la nota via Gerardo Sega. Avvicinamento lunghissimo e impegnativo che rende la meta poco ambita e poco affollata. Elena ed Erik salgono col piglio deciso di chi vuole conquistare la vetta. Nessuna insicurezza, tanta attenzione.

Alla fine “l’anello” che ci porta alla cascata Preafessa, al percorso ferrato e alla Madonna della Neve, dura sei ore e mezza: un’infinità, ma tanta soddisfazione per questa “prima volta”.

Gli olandesi appaiono soddisfatti del battesimo e rilanciano la sfida alle Bocchette per il prossimo anno. È un augurio che raccolgo volentieri. Bravi.

Olandesi sullo scalone iniziale

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Ferrata Vaio scuro

Al secondo attacco del colle del Diavolo furono colti dai primi impercettibili sintomi da fatica:
asfissia, occhi pallati, arresti cardiaci, lingue felpate, aurore boreali, miraggi!
Ormai disidratato, Fantozzi pensò di essere vittima di un’allucinazione!”

(da Fantozzi contro tutti)

L’escursione è stata tra le più dure della mia sobria carriera alpinistica. Non tanto per la complessità della ferrata, di per sé di media difficoltà e lunghezza, quanto per l’interminabile tragitto condito da ghiaioni logoranti.

Partiamo con le solite rimostranze nei miei confronti, reo di dover fare benzina, colazione e spesa per il pranzo (annotatevi quest’ultmo particolare: sono stato ingiuriato perché dovevo acquistare un panino per strada).

L’itinerario parte dal rifugio Battisti, a quota 1265. Percorrendo il bosco si giunge al Vaio di Pelagatta e si risale sino alla Selletta delle Poe e al Vaio Scuro. La ferrata parte subito con una calata a strapiombo nel canalone del Torrione Recoaro. L’ambiente è molto bello, ovunque guglie e anfratti che sembrano di cartapesta. In basso, su uno spuntone a poche decine di metri da noi, un capriolo scruta immobile le nostre mosse.

È qui che Gianluca s’accorge d’aver scordato il suo pranzo. Al posto del cibo si ritrova nello zaino il Tom Tom dell’auto. Utlilissssssimo!

Pian piano entriamo in una galleria verticale, abbastanza stretta e molto scenografica. Forse è questo il passaggio più bello di tutta la ferrata. Nel frattempo le nuvole avvolgono le cime, seguiamo il percorso, ma il panorama non esiste più e si procede nella foschia. La relazione parla Forcella Bassa, di Forcella della Scala, dell’Orecchio del Diavolo e della Porta dell’Inferno. Di preciso non sappiamo dove siamo, da qualche parte sulla vetta.

Il mio socio, depositario della cartina, decide che dobbiamo scendere di 400 mt. Scelta fatale perché, terminata la discesa lungo l’ennesimo ghiaione, scopriamo che dobbiamo subito risalire.

Il mio unico panino, acquistato in un clima di pubblico ludibrio, è il pranzo di entrambi.

Raggiungiamo dunque lo Scalorbi e da qui nuovamente il Battisti. Alla fine, il “giretto” dura sette ore ed il dislivello supera i 1000mt. Meno male che avevo un panino allo speck. Anzi, mezzo panino.

Duetto alla partenza

L’uscita del tunnel verticale

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Telerivisti

“l’Italia soffre a testa alta”

(B. Gentili – 10 giugno 2012)

Aldo Grasso in questi giorni propone una riflessione sull’evoluzione, o meglio sull’involuzione, delle telecronache calcistiche Rai, da Nando Martellini ai giorni nostri.

In effetti, seguendo le partite della nazionale in occasione di questi Europei, ho avuto le sue stesse sensazioni. Ricordo, più che altro per le periodiche riproposizioni storiche e per i diffusi servizi sull’argomento, lo stile asciutto di Carosio e di Martellini. Sembravano notai di fronte alla lettura di un rogito: asciutti, atavici, quasi apatici. Telecronache istituzionali che avevano lo stesso ritmo del gioco che commentavano: lento, prevedibile, a tratti noioso. Però conoscevano l’italiano ed il sentirli parlare lasciava comunque trasparire una grande professionalità.

Poi la lunga epopea di Pizzul, buono per ogni occasione e per ogni partita dell’anno: Pizzul quattro stagioni. A pensarci bene era un po’ indolente e le telecronache uscivano particolarmente fiacche. Troppi “Ehhhhh”, “Ahhhhh”, e molto pressapochismo. Però adesso lo rimpiango. In fin dei conti divertiva e, ne sono certo, si divertiva. Non dimenticherò mai il “cielo plumbeo ed il terreno gibboso”, la “parabola arquata” e lo “stadio gremito in ogni ordine di posto”.

Negli ultimi anni il gioco si è radicalmente trasformato, accelerato, evoluto. Il trionfo dell’atleticità e della velocità impone telecronache diverse, al passo coi ritmi di “giuoco” (per dirla alla Pizzul). Però ascoltando i vari Gentili, Cerqueti, Dossena, Collovati… scende la tristezza. L’italiano diventa un’opinione, i nomi random, le osservazioni tecniche sembrano uscite da un calcio di vent’anni fa.

Soffriamo, non so se “a testa alta”, ma soffriamo. Ed incalza la nostalgia.

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Maglia nera

Una volta, durante una partita che arbitravo in seconda categoria, capitò che un tifoso locale si rivolse con tono impetuoso al difensore centrale della sua squadra, reo, a suo dire, di scarso rendimento. Mi pare fossi dalle parti di Quistello e l’apostrofe fu più o meno così: “Sat gh’è mia oia ‘d sugàr, sta a casa a magnàr i turtèi ala domenica”. Il difensore uscì dal terreno di gioco e rincorse l’anziano tifoso, che nel frattempo s’era dato alla macchia. Espulso il primo, ancora latitante il secondo.

Non capisco perché domenica a Genova i cellerini non abbiano preso a manganellate sulle ginocchia quei quattro tifosi che hanno interrotto per un’ora la partita, pretendendo che la squadra locale si togliesse la maglia. Mistero della fede. D’altro canto la dice lunga il celebre striscione degli anni sessanta, esposto in occasione di un Mantova-Genoa: “Mantua me genuit: Mantua l’è mèi ca Genua

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Marmoleda

Il nome Marmolada potrebbe derivare dal greco “marmairo”, che significa “risplendo”, “brillo”. Gli abitanti della Val di Fassa, però, parlano il ladino, lingua nobilissima che meriterebbe una digressione a parte, ed il ghiacciaio lo chiamano “Marmoleda”. Probabilmente anche quelli di Modena lo chiamano allo stesso modo, Marmoleda, anche se non sanno cosa sia il ladino.

La leggenda narra di una vecchietta, che sfidò le usanze e osò raccogliere il fieno nel giorno dedicato alla festa della “Madonna della Neve”, il 5 agosto. La notte seguente nevicò a tal punto da formare un ghiacciaio perenne, sotto il quale giacerebbe tuttora l’irrispettosa vecchietta col suo carico di fieno.

Etimologia e fiaba, per raccontare un luogo indiscutibilmente unico. La Marmolada è la cima più alta delle Dolomiti, il ghiacciaio per eccellenza. Tra qualche anno non esisterà più, perché il surriscaldamento del pianeta ne riduce quotidianamente i confini. È quindi indispensabile visitarla prima che sia troppo tardi.

Ci si accede coi ramponi, camminando lentamente fino alla vetta di Punta Penia, a 3343 mt. Un’esperienza stupenda. Per eccesso di zelo, siamo saliti in rigorosa cordata. Una salita faticosa, ma non estrema, anche se a tremila e passa metri la respirazione diventa un po’ più complicata. Lo sforzo per trovare nuovo ossigeno è però ripagato dal panorama della cima: di fronte il Sasso Lungo e il Piz Boè, più là il Catinaccio e dall’altra parte le Tofane e il Pelmo. Vale la pena salirci.

In cordata sulla cresta

Bellimbusto tra Sasso Lungo, Sasso piatto (a sx) e Piz Boè (a dx)

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Cima Presena

Come sempre c’è da tribolare per proseguire il cammino…
ma è un tribolare che si fa volentieri,
anzi si vorrebbe fare ancora di più,
ma bisogna essere equilibrati

(don Daniele Corridori, 1996)

La prima volta che sono salito sul ghiacciaio Presena è stato ai tempi del Camposcuola a Ponte di Legno, con don Daniele. Credo fosse il 1990 o giù di lì. Non ci giurerei, ma la copertina del libro “Una strada per la montagna” mi pare che riporti un’istantanea di quell’escursione.

Ci sono ritornato ieri, più vecchio, più saggio e decisamente più attrezzato. Non ho potuto fare a meno di confrontare quella salita a questa.

Al di là del fatto che all’età di quindici anni non sai neppure dove ti trovi, ho costatato che l’elemento di maggior differenza è stata l’attenzione per il paesaggio, attenzione che vent’anni fa era inesistente, perché riservata alle cazzate dei miei coetanei. Mentre scrivo, ricerco il libro che ho citato sopra e mi rivedo nelle ultime posizioni della fila, intento a soppesare una palla di neve sicuramente destinata a qualche capoccione degli avamposti. Chiudono la coda il Lele, con gli inseparabili jeans, e il Paio col panama alla Venditti.

Quella di ieri è stata un’esperienza più matura, più legata alla montagna e alle sue meditazioni. Faceva freddissimo in vetta, e il vento ci ha messo parecchio in difficoltà. Bello questo ghiacciaio d’estate, non me ne ero mai accorto.

 

Il lago sotto il Presena

 

Freddo polare a fine giugno nei pressi della vetta

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Esperienza Stravolta

21 km di Stravolta. Nonostante il testamento olografo, opportunamente redatto alla partenza, sono degnamente sopravvissuto all’evento. In verità qualche segno di cedimento lungo la scalata al monte dell’acquedotto ce l’ho avuto, eccome! Mi è parso il Pordoi e non capirò mai se la Madonna in cima era vera o se l’ho vista solo io. Però già al 13°-14° km mi sono ripreso. Le gambe oggi stanno molto bene, la schiena un po’ meno. Se guardo il cronometro rilevo un tempo infame, ma l’importante era mantenere sempre la corsa costante, no?

È d’obbligo un pubblico ringraziamento agli organizzatori e alla Protezione Civile, perché la corsa è stata magnifica. Potrei sintetizzare “complimenti ai fratelli Tedeschi” (beninteso: Aldo e Bruno, non Hans e Wolfgang).

Bellissimo tragitto, con tanta ombra, poco asfalto, boschi e saliscendi. È la conferma che chi disegna i percorsi nel nostro circondario dovrebbe essere di Volta o avvalersi della consulenza dei Voltesi. Qualcuno lo dica a chi organizza i raduni delle vespe, visto che nell’ultima edizione il tragitto faceva pena e chiunque, improvvisando quella mattina, avrebbe scelto strade migliori.

 

Stravolti alla partenza

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