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Questione di attimi

Tra i tanti libri che il Lele mi ha regalato, il mio preferito è “opinioni di un clown”, di Heinrich Böll.

Di quel libro, la citazione più famosa è senza dubbio “sono un clown e faccio collezione di attimi”. Per me significa che per sorridere alla vita, come fanno i clown, occorre assaporarne ogni istante, nel bene e nel male.

C’è però un’altra frase di quel libro che ho fatto ancor più mia. Parla sempre di “attimi”, è meno celebre e meno inflazionata della prima, ma è decisamente più significativa. “Aggrapparsi al passato è ipocrisia, perché nessuno conosce gli attimi di cui è fatta una vita”.

Se il Lele ci ha insegnato qualcosa è proprio che ogni attimo ha un suo peso specifico ed un suo valore particolare. Forse vale davvero la pena di vivere ogni istante con passione, anche perché le sorprese e le incognite che la vita ci riserva sono per definizione impossibili da prevedere oggi.

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Consuetudini in culla

Ci sono domande alle quali è meglio non rispondere nell’interesse di chi le fa”.
(R. Gervaso, Il grillo parlante)

Quando nasce un bambino ci sono una serie di commenti e di domande standard che risucchiano ogni genitore di buona volontà. Vi elenco i cinque punti principali del protocollo d’intervista, a cui ogni buon padre di famiglia è costretto a sottoporsi.

  1. Il commento più falso e più diffuso fatto in presenza dei genitori è “Che bello che è”. Cordialità, contegno senso del decoro, sensibilità… Non so quale sia il vero motivo, ma non ho mai sentito dire ad un genitore che suo figlio è “bruttino” e neppure che è “così così”. Eppure è impossibile che tutti i bambini del mondo siano belli, lo sanno anche i genitori stessi. Meglio passare per maleducati o per ipocriti?
  2. Appena nasce un bambino, mentre ancora non si distinguono la testa dalla rotula, l’ombelico dall’occhio, il naso dall’alluce, i più arditi azzardano le somiglianze sparando nel mezzo: “Ha gli occhi tuoi e la bocca di lei”, oppure “La parte sopra del viso è di lei, quella sotto tua”. La frase è buttata lì, nella declinazione più generica possibile, in modo che il senno di poi non possa smentire drasticamente nessuno. Ma io li segno tutti.
  3. Sempre nell’ambito dell’esame fisico corporeo, l’altro commento da mercato delle vacche è “Che lungo che è”. È la proprietà transitiva degli attributi: essendo il bimbo pressoché orizzontale, l’altezza si tramuta in lunghezza.
  4. Altra affermazione generica e approssimativa, spendibile con (quasi) tutti i bambini è “A vederlo così sembrerebbe buono”. Uno lo dice per avere sempre ragione: se effettivamente è buono, me ne so accorto subito; se invece non è buono, è l’apparenza che inganna quindi non ho sbagliato giudizio. Assolto.
  5. La migliore di tutte però è la frase riferita alla moglie “Ma gala ‘l lat?” (“Ma ha il latte?”). È l’assillo assoluto delle anziane, il tarlo tantrico delle nonne più attempate e delle balie dismesse. E se rispondi di no sei irrimediabilmente relegato al cerchio degli eretici.

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La sala parto

“Perché si chiama sala parto se ha solo nuovi arrivi?”

(Anonimo)

Le sale parto non sono mai come ci si immagina che siano. Se ti aspetti una sala vasta e ampia, troverai uno spazio stretto e caotico. Al contrario, se pensi ad un ambiente intimo e confortevole, troverai una sala d’armi dall’aspetto vagamente sinistro.

Io non dovevo neppure entrarci in sala parto, o almeno i patti erano questi. Poi ho accompagnato mia moglie durante il lungo momento delle contrazioni e nel mezzo del travaglio ho chiesto all’ostetrica: “Forse è il caso che la trasferiate in sala parto”. “Siamo già in sala parto”, mi ha risposto col tono di chi si rivolge ad un analfabeta, durante un esame di paleografia greca.

È quello che si dice “trovarsi impreparati fin dall’inizio”.

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Vuoto torricelliano

“La velocità di un fluido in uscita da un foro
è pari alla radice quadrata del doppio prodotto
dell’accelerazione di gravità e della distanza “h”
fra il pelo libero del fluido
e il centro del foro che è stato praticato”

(Legge di Torricelli)

Evangelista Torricelli è stato un grande fisico e matematico italiano. Tra le altre cose, anticipò il calcolo infinitesimale e studiò il moto dei gravi. Nel 1644 individuò il “vuoto torricelliano”, dimostrarono che il vuoto può esistere in natura e che l’aria ha un peso.

Ad Evangelista Torricelli è dedicata una via di Verona, la stessa dove parcheggio tutti i giorni per andare al lavoro. La strada è dedicata a lui perché è qui che le sue teorie trovano la più efficace dimostrazione pratica. È in questa via che i concetti di calcolo infinitesimale, di moto dei gravi e di vuoto torricelliano trovano la più completa e tangibile applicazione.

L’incidente sotto ha coinvolto almeno tre vetture. La mia auto, parcheggiata a lato della strada, ne è uscita completamente illesa. Si può chiamare vuoto torricelliano, oppure sospensione del moto dei gravi, oppure semplicemente… culo infinitesimale.

Panoramica dell'incidente

Panoramica dell’incidente

Pochi cm dal retro della mia focus grigia

Pochi cm dal retro della mia focus grigia

E pochi cm anche dal fianco della mia auto

E pochi cm anche dal fianco della mia auto

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Giovedì: Gnocchi

“Adriano Baconi, non per dire, ma cercano uno per rifare i letti nei film porno”

(G. Gnocchi a La Domenica Sportiva)

Eu-genio, di nome e di fatto, e un anonimo giovedì di settembre. Una ricetta perfetta.

Quest’anno il Festivaletteratura ha ospitato anche Gene Gnocchi, ma i biglietti sono stati presto esauriti. Non sono riuscito ad arrivare neppure in corso d’evento, in modo da fruire della consolidata consuetudine di accedere gratis all’ultimo quarto d’ora degli appuntamenti.

Il pranzo dalla suocera (per la cronaca: linguine allo scoglio, pesce spada, torta cioccolato e pere, soave ghiacciato, caffettiello) mi ha concesso di raggiungere palazzo San Sebastiano solo ad evento già concluso, giusto in tempo per l’ultima domanda rivolta a Gene dal pubblico. “Il Milan ha qualche possibilità di vincere lo scudetto quest’anno?” gli chiede uno spettatore. “Sì, certo. Ma tutto dipende da quale giocatore dovrà andare in prigione al posto di Berlusconi”. Geniale, appunto.

Genio

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Il Boss dal vivo

“Ho scelto di fare il presidente solo perché non potevo essere Bruce Springsteen”

(B. Obama)

 Ecco dieci motivi per ricordare con piacere il concerto di Springsteen allo stadio di Padova.

  1. Innanzitutto la durata del concerto. Non c’è al mondo nessun altro cantante di 64 anni che urla senza interruzioni per tre ore filate e beve mentre suona la chitarra. Insuperabile.
  2. Il bis mancato. Non sopporto le farse tiramolla in cui il pubblico urla “bis, bis” e il complesso esce e rientra venti volte dalle quinte del palco. Quando è finito, è finito.
  3. Ovviamente la più classica delle cene da trasferta: panino salsiccia, peperoni e cipolle e birrona ghiacciata. Un must quando si è in attesa davanti ad uno stadio.
  4. Le foto sui maxi schermo della E-Street Band negli anni ’70 e’80. Danno all’evento quel pizzico di amarcord che insaporisce ancor di più la serata.
  5. Il noto momento in cui il Boss cambia la chitarra, lanciandola ad un assistente a dieci metri di distanza. Sono sicuro che nel mondo molti fans avranno provato la stessa scena, sfasciando strumenti di ogni tipo.
  6. I duetti “face to face” con Little Steven, personaggio assai bizzarro. Uno dei miei sogni è girare l’America con Little Steven e Clint Eastwood.
  7. Guerrino, rumorista allo sbaraglio. È stato scelto dal pubblico e chiamato sul palcoscenico per accompagnare un pezzo del concerto. È chiaro che la notte stessa è morto d’infarto.
  8. La dolce melodia dell’infante che è salito sul palco e a cappella ha cantato il ritornello di Waitin on a sunny day. Springsteen si è fermato per ascoltare la sua voce. Invero la gag sembrava un po’ preparata, ma di certo il bambino si ricorderà quel momento per tutta la vita.
  9. Liscio sia il viaggio d’andata che il ritorno. Code a “branchi” solo davanti al camion del patataro che vendeva i suddetti panini.
  10. Orario ufficiale d’inizio: 20.30. Alle 20.35 uno spettatore urla dal pubblico: “E aora, comincémo? Vecio, ara che semo a Padoa, no a Napoli”. Dopo dieci minuti, Bruce inizia a cantare.

 

1977

La E Street Band nel 1977

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Quello che la musica può fare

“Una musica può fare, cambiare nininni o nananna”

(M. Gazzè – Una musica può fare)

Per andare fino a Corte Maggiore, in provincia di Piacenza, a vedere un concerto di Max Gazzè, ci vuole del buontempo. Mi ci hanno quasi trascinato, ciononostante sono felice di esserci stato.

Pensi di conoscere due canzoni di Gazzè, ma poi man mano che il concerto prende quota, scopri che le stai canticchiando quasi tutte. L’orecchio associa i vari pezzi ai momenti della vita che più li ricordano. Adoro i testi, divertenti, ricercati e mai banali.

Qualcuno balla, qualcuno salta, qualcuno urla. Gazzè suona benissimo il basso e il concerto assume subito un’impronta originale. Acustica un po’ scarsa, che però non rovina l’atmosfera di allegra spensieratezza che si è creata.

Corte Maggiore, almeno questa sera, sembra vicinissima a noi. È questo, quello che la musica può fare.

Su_le_mani

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Il mare d’inverno

“il mare d’inverno è un concetto che il pensiero non considera”

(E. Ruggeri – Il mare d’inverno)

La canzone dice anche che è poco moderno, è qualcosa che nessuno mai desidera. E forse è così.

Non so se vi è mai capitato di osservare il mare d’inverno. Io credo di averlo visto quattro o cinque volte nella mia vita, non di più. Ma è una seduzione unica.

Pochi giorni fa sono stato ospite a Riccione e fortunatamente pioveva. Nuvole basse e grigie, vento pungente e onde fragorose. Insomma tutto quello che la gente normale non vorrebbe mai vedere quando va al mare. Gli stabilimenti chiusi, qua è là qualche cumulo di sabbia da spostare. Linee sconnesse e disordinate, e prima dell’orizzonte nessun ombrellone ad interrompere lo sguardo. Tutta un’altra musica, un altro luogo.

Muovendo qualche passo sulla spiaggia costantemente bagnata e mirando l’orizzonte sgombro, il mare d’inverno ti offre un’introspezione straordinaria, che pochi altri luoghi sanno suscitare. Lo auguro a tutti, è bellissimo.

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Chiuso per ferie

Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe rimasto inascoltato l’appello al Parlamento per ridursi le ferie? Dal 5 agosto al 12 settembre. Mica male per chi solitamente lavora dal martedì al giovedì. Fatte le dovute proporzioni, è un po’ come se noi andassimo in ferie dal 4 agosto al 4 ottobre.

Per giustificare il lungo periodo in panciolle, da più parti si è addotto l’impedimento di molti parlamentari per il viaggio in Terrasanta, pianificato per i primi di settembre. Organizza Lupi, dicono. Me li immagino sul pullman che rispondono all’appello, con Lupi in piedi di spalle al lunotto anteriore, col microfono in mano che li chiama uno per uno: “Barbareschi? Presente! Bersani? Presente!”

L’anno prossimo per arrivare fino a fine settembre, ci diranno che Calderoli organizza una visita guidata all’Oktober Fest e che per rispetto… occorre andarci.

Ma dai! È andato in ferie anche il ritegno. Almeno il silenzio, qualche volta non guasterebbe.

Buone vacanze a tutti, ci risentiamo tra quindici giorni. Noi.

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Dulcis in mundo

Poiché questo blog non produce solo critica retorica o noiosa polemica, ma è permeato anche dalla cultura, oggi parliamo di un dolce tipico del carnevale.

I dessert del periodo carnevalesco traggono origine dalle frictilia degli antichi romani, nate alcuni secoli prima di Cristo. Per le Liberalia, le feste dedicate alle divinità del vino e del grano, i Romani friggevano nel grasso di maiale dei preparati di farina di mais e poi li ricoprivano di miele. Le Liberalia si celebravano il 17 marzo: è curioso scoprire che già oltre duemila anni fa questa data era festa “nazionale”.

Le lattughe, come si chiamano a Volta, sono uno dei dolci di carnevale più comuni in Italia. Di certo sono il dolce con il maggior numero di appellativi regionali. Paese che vai, nome che trovi.

A Volta, dicevo, e in molte parti della Lombardia, si chiamano lattughe. Il nome deriva dalla somiglianza con le foglie dell’insalata lattuga, a sua volta derivante dal latino lactuta (cioè, che secerne latte). Alcuni vedono la somiglianza con la gorgiera, detta anche lattuga, cioè con quella gala di merletto, quel drappo di tela che si portava un tempo sopra la camicia, al posto della cravatta. Ma in Lombardia, come in molte parti d’Italia, prendono anche il nome di chiacchiere, dalla sineddoche legata alla loro forma, simile ad una lingua.

In Veneto abbiamo le gale o i galani, proprio in riferimento alla sopracitata gala di merletto, che a sua volta discende dallo spagnolo gala (lusso, eleganza).

In Toscana la gala diventa popolarmente il cencio, perché il merletto appartiene ai nobili, mentre lo straccio è più vicino al popolo: dal latino cencium (pezzo di stroffa, straccio). Sempre in Toscana si chiamano anche donzelle, perché le donne amano spesso agghindarsi con merletti e pizzi vari, oppure crogetti (da crogiolare, cioè cuocere lentamente).

A nord, verso il Trentino e nel Friuli, semplicemente rimandando ad un’idea di friabilità e croccantezza, prendono il nome di cròstoli.

I Piemontesi e i Liguri li chiamano bugíe (in ligure böxie) o rosoni: il nastro di pasta appare avvolto in maniera concentrica, tondo come il piatto di un portacandele (bugia) o intricato come un rosone.

In Emilia Romagna, oltre a chiamarsi lasagne, dal latino lasanum (pentola, vaso), si trovano spesso con il nome di frappole, o sfrappole, dal francese frapper (battere, stendere la pasta). E così è a Roma o nel Lazio: le frappe.

Nel riminese si chiamano fiocchetti, dal latino floccus, a Reggio Emilia sono detti intrigoni (da intrigare, cioè avviluppare insieme) e a Piacenza sprelle. In Abruzzo si chiamano cioffe, da un termine greco che significa cosa leggera.

Al sud, in Puglia, il dolce prende il nome di pampuglia, ovvero truciolo (dal latino pampinus, tralcio di vite).

I fantasiosi campani invece, osservando la forma allungata della pasta che richiama l’invadenza della suocera, nonché i contorni frastagliati che ne ricordano la scontrosità, hanno coniato il nome di… lingue di suocera.

 

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